Le malattie reumatiche alla corte medicea di Firenze: la cosiddetta “gotta” dei Medici
Rheumatic diseases at the court of the Medici of Florence: the so-called “gout” of the Medici
di G. Fornaciari, V. Giuffra
RIASSUNTO
Secondo le fonti archivistiche diversi membri della famiglia Medici di Firenze avrebbero sofferto di gotta. Il termine “gotta”, con il quale in epoca rinascimentale i medici indicavano episodi dolorosi acuti localizzati alle mani, ai piedi, alla schiena e alle spalle, in generale era usato impropriamente, e nasconde entità nosologiche diverse. Lo studio paleopatologico condotto sui resti scheletrici dei Granduchi di Firenze, sulle loro mogli e figli, ha rivelato la vera natura delle malattie da cui erano affetti. Sono stati infatti diagnosticati due casi di iperostosi scheletrica idiopatica diffusa (DISH), un caso di artrite reumatoide in fase avanzata e un caso di gotta.
Parole chiave – Medici, Firenze, Rinascimento, gotta, DISH, artrite reumatoide.
Key words – Medici, Florence, Renaissance, gout, DISH, rheumatoid arthritis.
La storia clinica della famiglia Medici di Firenze è ben nota dalle fonti d’archivio, comprendenti le relazioni degli ambasciatori e, soprattutto, dei medici di corte, fonti esaminate e raccolte da Gaetano Pieraccini nella sua fondamentale opera La stirpe de’ Medici di Cafaggiolo (1). Da questa preziosa documentazione emerge che diversi membri della famiglia furono affetti da malattie articolari, alle quali i medici contemporanei facevano riferimento usando il termine “gotta”. Risulta difficile ricondurre questi episodi morbosi, caratterizzati da violento dolore localizzato alle mani, ai piedi, alle spalle, alle ginocchia o alla colonna toracica e lombare, esclusivamente ad attacchi gottosi; bisogna piuttosto ipotizzare che includessero entità nosologiche differenti, ancora ignote alla medicina rinascimentale.
La parola gotta, introdotta per la prima volta nel XIII secolo, deriva dal latino gutta, che significa “goccia”, ad indicare che questa condizione era causata, secondo le teorie dell’epoca, dallo squilibrio di un umore che cadeva all’interno di un’articolazione, causando dolore e infiammazione. La gotta, definita nel mondo anglosassone come la “malattia dei re” per la sua associazione ad uno stile di vita tipico delle classi elevate, veniva comunemente confusa con altre artropatie, fino a quando, nel XVII secolo, non venne finalmente stabilita una distinzione tra gotta e reumatismo (2). A giudicare dalle fonti archivistiche sembrerebbe di poter affermare che la gotta fosse una malattia di famiglia tra i Granduchi di Toscana, essendo citata nella storia clinica di ben 9 individui maschi, ossia Cosimo I (1519-1574), Ferdinando I (1549-1609), il Cardinale Carlo (1596-1666), Lorenzo (1599-1648), Cosimo II (1590-1621), il Cardinale Giovanni Carlo (1611-1663), il Principe Mattias (1613-1667) e i Cardinali Leopoldo (1617-1675) e Francesco Maria (1660-1711). Degno di nota è anche il soprannome “il gottoso” attribuito a Piero (1416-1469), il figlio primogenito di Cosimo il Vecchio, nonché padre di Lorenzo il Magnifico.
Nelle fonti documentarie sono altresì segnalati di versi episodi artritici alle estremità, alle ginocchia, alle spalle e alla colonna, come riassunto in tabella I.
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Epoca | Malattie articolari |
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1519-1574 | “gotta” del ginocchio dx (49), “gotta” (52-53) |
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1549-1609 | “gotta” del piede sinistro (33, 38, 40, 41, 42, 44, 56) |
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1596-1666 | “gotta” dei piedi (24, 35, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 48, 51, 52, 53, 54, 55, 57, 58, 59, 60-65), artrite delle mani (51, 58, 59, 60, 62-70), artrite del ginocchio (57, 60) |
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1599-1648 | “gotta” (32, 35, 36, 37, 38, 39, 42, 43, 45, 47), artrite delle mani (38), grave artrite delle mani (41-44), poliartrite diffusa con cruralgia (45-48) |
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1590-1621 | “gotta” (27, 28, 29, 30), “gotta” della mano destra con febbre (27, 28, 29) e della mano sinistra (29), artrite delle ginocchia (29) |
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1587-1631 | artrite delle ginocchia (34) |
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1611-1663 | “gotta” (46, 47, 48, 49, 50, 51), artrite delle ginocchia (49) e delle mani (51) |
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1613-1667 | “gotta” (34, 40, 43, 44, 46, 51, 52, 53, 54), artrite del ginocchio (51, 53) e della mano dx (54), artrite delle mani e dei piedi (54) |
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1617-1675 | “gotta” (50, 51), artrite della spalla (50) |
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1660-1711 | “gotta” (31, 32, 33, 34, 38, 42, 43, 44, 47, 48, 49, 50), artrite della spalla, del collo, del dorso (44, 48) |
Tabella I – “Gotta” e malattie articolari acute (artrite) nei membri della famiglia Medici dalle fonti documentarie (fra parentesi l’età degli individui in corrispondenza dei diversi episodi clinici).
Il Progetto Medici, sorto da un accordo di collaborazione scientifica fra l’Università di Pisa, l’Università di Firenze e la Soprintendenza per il Polo Museale Fiorentino, con lo scopo di condurre una ricerca archeologica e paleopatologica sulle deposizioni funebri dei Granduchi dei Medici, nelle famose Cappelle Medicee della Basilica di San Lorenzo a Firenze, ha permesso di chiarire, almeno in parte, la natura della patologia articolare della famiglia Medici.
L’indagine è stata indirizzata in particolare sul ramo più recente della famiglia, quello dei Granduchi di Toscana, che, facendo capo a Giovanni delle Bande Nere (1498-1526), giunge fino all’ultimo Granduca Gian Gastone (1671-1737), tralasciando il ramo più antico, comprendente Lorenzo il Magnifico (1446-1492), i cui membri, deposti nella Sagrestia Nuova della Basilica di San Lorenzo, sono già stati oggetto di uno studio a metà del secolo scorso (3).
Le esplorazioni hanno avuto inizio nel maggio 2004, con l’apertura delle tombe della cappella di Cosimo I (1519-1574), che comprendeva anche le sepolture della moglie Eleonora di Toledo (1522- 1562) e di due figli, Giovanni Cardinale (1543-1562) e Don Garcia (1547-1562). In seguito sono state esplorate la cappella di Francesco I (1541-1587) e della moglie Giovanna d’Austria (1547-1578) e, infine, quella di Ferdinando I (1549-1609) e della moglie Cristina di Lorena (1565-1636). Queste sepolture erano già state oggetto di una ricognizione nel XIX secolo (4) e di uno studio antropologico parziale dopo la seconda Guerra Mondiale (5); perciò i resti dei Granduchi e dei loro familiari non sono stati rinvenuti nella loro deposizione primaria, ma sistemati in cassette di zinco. I corpi erano stati trattati a fini conservativi al momento della morte, come testimoniano i tagli e i segni relativi all’autopsia e al processo di imbalsamazione rilevati sulle ossa (6). Purtroppo ogni traccia di tessuti molli è completamente scomparsa, a causa dell’intervento degli antropologi degli anni ‘40, i quali, interessati soprattutto all’analisi dei segmenti scheletrici, asportarono completamente i tessuti mummificati per effettuare più agevolmente i loro studi. Tuttavia, va specificato che lo stato di conservazione dei reperti ossei si è rivelato molto buono, permettendo un’approfondita analisi paleopatologica, che ha compreso, oltre all’osservazione macroscopica, anche l’esame radiologico (7, 8).
Cosimo I (1519-1574)
Tra gli individui finora esaminati, tre hanno rivelato segni di malattie articolari. Per quanto riguarda Cosimo (Fig. 1), l’indagine paleopatologica non ha trovato segni scheletrici di quella “gotta” al ginocchio sinistro di cui si inizia a parlare nel 1568, quando il Granduca aveva raggiunto l’età di 49 anni. Il medico curante Baldini riferisce infatti che il ginocchio era “enfiato”, ma“non infiammato niente et non molto caldo” e che dopo un “gran dolore” la fase acuta era passata abbastanza rapidamente. La diagnosi fu quella di gotta del ginocchio, che si manifestò, con altri attacchi, nel gennaio del 1570, nel febbraio del 1571 e di lì in avanti fino al dicembre dello stesso anno. Ancora, nel dicembre del 1572, dopo una battuta di caccia, il Granduca tornò molto provato, con “un pocho di gotta in un calcagno et così in un ginocchio”(1).
Senza escludere la possibilità di episodi di gotta interessanti solo i tessuti molli periarticolari, questi disturbi potrebbero essere ricondotti a fenomeni artrosici, più marcati sul lato destro. In effetti lo studio paleopatologico ha evidenziato osteoartrosi dei condili femorali, che presentano un orlo osteofitico, delle incisure intercondoloidee dei femori e della faccia posteriore delle patelle, con evidente bordo osteofitico; la faccia interna della patella sinistra presenta inoltre porosità diffuse e due formazioni ossee in rilievo, di forma sub circolare, di osso sclerotico di 0,4 per 0,5 cm.
Oltre alle lesioni artrosiche appena descritte, riscontrate anche alla colonna vertebrale e alle altre grandi articolazioni, i resti ossei di Cosimo I hanno rivelato lesioni articolari, sia dello scheletro assiale che appendicolare, da ricondurre ad un’altra, importante, patologia reumatologica. La colonna mostra una tipica ossificazione del legamento longitudinale anteriore tra la sesta e l’ottava vertebra toracica localizzata sul lato destro, con una colata osteofitica che conferisce alla colonna l’aspetto di una candela (Fig. 2a). La seconda e la terza vertebra lombare sono unite da un ponte osseo, mentre numerosi sindesmofiti sono presenti anche a livello toracico e lombare, ma senza fusione tra le vertebre. I dischi intervertebrali, le articolazioni costo vertebrali e quelle apofisarie non risultano interessate. Per quanto riguarda lo scheletro appendicolare, sono state osservate diffuse ossificazioni di attacchi muscolari e ligamentari extraspinali, con formazione di entesopatie (Fig. 2b e c) (9). Pertanto, per Cosimo si impone la diagnosi di iperostosi scheletrica idiopatica diffusa (DISH), una patologia articolare comportante anchilosi della colonna per ossificazione dei legamenti, senza il coinvolgimento dei dischi intervertebrali. Questa patologia compare raramente prima della quarta decade di vita, progredisce con l’avanzare dell’età e colpisce in prevalenza il sesso maschile rispetto al femminile. La sua eziologia è ancora sconosciuta, ma sembra che l’obesità e il diabete giochino un ruolo importante nella sua insorgenza (10). In effetti l’alimentazione alla corte dei Medici doveva essere molto abbondante e soprattutto ricca di proteine animali, come ha evidenziato un recente studio paleonutrizionale (11); anche la ritrattistica mostra un Cosimo piuttosto corpulento, almeno nelle ultime decadi di vita.
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Ferdinando I (1549-1609)
Tra gli individui studiati, per i quali le fonti riferiscono che soffrirono di gotta, va annoverato Ferdinando I (Fig. 3), figlio di Cosimo. Risale al giugno del 1582 l’accenno ad un primo possibile attacco gottoso, secondo quanto riferisce lo stesso Ferdinando, allora Cardinale, in una lettera al fratello,il Granduca Francesco I: “Da hieri in qua io me ne sto fra il letto et la sedia rispetto ad un po’ di catarro cadutomi nel piè manco, il quale Dio voglia che non riesca podagra…” (1). Non mancano negli anni successivi, altre descrizioni di questo disturbo, che talvolta costringeva Ferdinando, ormai Granduca, alla lettiga.
Nel 1591 il medico Giulio Angeli nella relazione alla Granduchessa Cristina riferisce: “Incominciò la gotta con poco dolore… doppo cena si vidde il piede, era enfiato solo il dito grosso del piè dritto, et era rosso… et si chiarì essere gotta” (1). Il Granduca fu tormentato da frequenti attacchi acuti di “gotta” fino all’anno della morte, come avvenne ad esempio nel 1605, quando Bartolomeo Cenami, ambasciatore lucchese a Firenze, afferma: “fu assalito da una acerba et dolente podagra, onde li fu forza fermarsi in letto…” (1).
Lo scheletro di Ferdinando ha rivelato un’interessante lesione, localizzata all’articolazione interfalangea dell’alluce del piede sinistro, che mostra cavitazioni, erosioni e un orletto osteofitico (Fig. 4a, 4b). Sulla superficie articolare si evidenzia un difetto “a scodella”, con distruzione parziale del piatto subcondrale (Fig. 4c), mentre l’indagine radiologica ha rivelato la presenza di un margine sclerotico su entrambe le ossa colpite (9). Si tratta chiaramente delle manifestazioni scheletriche di una gotta inveterata. Sebbene la localizzazione classica riguardi prevalentemente l’articolazione metatarso-falangea dell’alluce, ogni articolazione può essere colpita (12); in particolare, in letteratura sono noti diversi quadri simili a quello di Ferdinando, in cui vi è un coinvolgimento dell’articolazione interfalangea (13, 14). È probabile che le lesioni fossero accompagnate dalla presenza di tofi, dei quali tuttavia è scomparsa ogni traccia, insieme ai tessuti molli. Perciò, nel caso di Ferdinando, la paleopatologia ha confermato la diagnosi di gotta formulata dai medici dell’epoca.
Oltre alle lesioni all’alluce, la colonna di Ferdinando rivela un quadro simile, ma con lesioni ancora più evidenti e marcate, a quello osservato nel padre. L’ossificazione del legamento vertebrale anteriore sul lato destro coinvolge le vertebre toraciche dalla quinta all’undicesima, con formazione di un unico blocco, mentre altre ossificazioni parziali sono osservabili sui corpi di altre vertebre cervicali e toraciche, ma senza formazione di ponti ossei (Fig. 5a). Anche in questo caso i dischi intervertebrali e le articolazioni apofisarie risultano indenni da lesioni. Sono inoltre presenti diffuse entesopatie delle inserzioni muscolari, calcificazioni delle cartilagini sterno-costali (fig.5b), della cartilagine tiroidea e dell’epiglottide (Fig. 5c), oltre ad un’artrosi diffusa della colonna e delle grandi articolazioni degli arti, e delle piccole articolazioni delle mani e dei piedi (9).
Le lesioni dello scheletro assiale e appendicolare di Ferdinando rivelano un caso tipico e avanzato di iperostosi scheletrica idiopatica diffusa (DISH). Oltre che ai fattori ereditari, l’insorgenza di questa patologia può essere messa in relazione con l’obesità da cui il Granduca era affetto, almeno a partire dalla quarta decade di vita, attestata dalle rappresentazioni artistiche e dalle fonti scritte. Infatti, sebbene si affermi che Ferdinando “Ha vissuto molto sobrio, sempre senza mangiare molto, non senza qualche dispiacere di ciò, ma soffrendo tutto per prolungarsi la vita”, nel 1587 il rappresentante veneto a Firenze, Giovanni Gritti riferisce: “È il Granduca presente di età di 39 anni, di complessione umida et grasso, onde si dubita che non vivrà lungamente” (1).
L’assenza, nella storia clinica di Cosimo e del figlio, di alcun cenno che possa ricondurre a questa patologia è imputabile al fatto che, aldilà delle sue manifestazioni ossee così evidenti, la DISH è in molti casi asintomatica, limitandosi al massimo ad una rigidità o a lievi rachialgie. Di particolare interesse, nel caso di Ferdinando, risulta l’associazione tra gotta e DISH, due entità nosologiche distinte, ma in qualche modo legate, essendo espressione di un analogo disordine metabolico. Infatti se la DISH appare legata a fattori quali diabete e obesità, l’insorgenza della gotta è legata, come è noto, a fattori ambientali, oltre che genetici, in particolare ad un’alimentazione ricca in proteine animali, delle quali era particolarmente ricca la mensa delle famiglie aristocratiche rinascimentali, come dimostrano recenti studi storici (15) e paleonutrizionali (11).
Anche studi clinici moderni riportano una associazione significativa tra DISH e patologie articolari infiammatorie, tra le quali è annoverata anche la gotta (16). A questo proposito, il caso di Ferdinando è di grande interesse, perché costituisce il primo esempio di una tale associazione nella letteratura paleopatologica.
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Cardinale Carlo (1595-1666)
Il terzo membro della famiglia, studiato sempre nell’ambito del Progetto Medici e che ha mostrato i segni di una malattia reumatologica, è il Cardinale Carlo (Fig. 6), figlio di Ferdinando I. I disturbi reumatologici sembrano iniziare presto, se già nel 1620, quando Carlo aveva appena 24 anni, il medico Baroncelli riferisce: “su la sera si sente qualche dolore nelle ginocchia, e la gotta che suole cominciare dai piedi, a S.S. Ill.ma comincia dove la sente; se però è gotta questa: di che io me ne rimetto a più savi dottori” (1). In effetti, questo sembra essere stato un episodio isolato, dal momento che si torna a parlare di dolori ad un piede solo una decina di anni dopo: “Il Cardinale ebbe ieri un po’ di male a un piede, per causa, dice egli, di una scarpa stretta, ma si può anche dubitare di gotta” (1). I disturbi si ripresentarono ripetutamente negli anni successivi. Al 1637 risale il primo accenno ad una gotta del ginocchio, mentre con il 1647 iniziano i disturbi anche alla mano, che addirittura impediscono al Cardinale di scrivere agevolmente le lettere. Si dice l’anno successivo: “le flussioni di gotta che travagliano il Sig. Princ. Cardinale per esser trascorse alla mano destra l’impedivano di firmare” (1). I problemi di “gotta” andarono via via peggiorando, tanto che impedirono a Carlo di partecipare, nel novembre dello stesso anno, ai funerali del fratello Lorenzo, tormentandolo continuamente di lì in avanti.Negli ultimi anni di vita fu costretto per lunghi periodi a letto, come testimonia tra gli altri l’ambasciatore lucchese Giovanni Guinigi: “Il Sig. card. Carlo decano del Sacro Collegio di anni 69, tollera con molta patientia il penoso trattamento che riceve dalla podagra…, si protesta informato dell’affari del mondo e preme di esser creduto tale, anzi, come per lo più non esce di letto, seco medesimo ne discorre…”, o come sappiamo dalle parole stesse di Carlo: “sto trattenendomi in letto in assai buon grado di salute, ma non mi anima ancora a levarmi, per la stravaganza del tempo” (1).
Lo studio paleopatologico dei resti scheletrici del Cardinale Carlo ha rivelato che era afflitto da tutta una serie di malattie articolari. In particolare, è stata diagnosticata la sindrome di Klippel-Feil, una anomalia congenita della colonna cervicale, come dimostra la fusione dell’arco posteriore della colonna cervicale in un unico blocco (Fig. 7a e b), accompagnata da altre anomalie facciali e spinali; si è trovato inoltre riscontro della tubercolosi contratta da Carlo in età infantile, ben descritta dalle fonti, come dimostra la fusione di due vertebre cervicali inferiori, con collasso a cuneo e formazione di cifosi angolare, tipica del morbo di Pott (Fig. 7a, freccia). Oltre a ciò è evidente la presenza di una grave poliartropatia simmetrica, con anchilosi di molte articolazioni, grandi e piccole, che giustifica pienamente quell’immobilizzazione di cui si parla negli ultimi anni di vita. Infatti, sono state rilevate, a livello degli arti superiori, la fusione del gomito destro in flessione a 55°, la fusione bilaterale dei polsi e delle ossa carpali (Fig. 8a e c), e una deformità “a collo di cigno” del terzo dito della mano destra e del quarto dito della sinistra (Fig. 8b); a livello degli arti inferiori sono presenti la fusione bilaterale della ginocchia, che risultano in flessione a 90° (Fig. 9a, b e c) e la fusione bilaterale delle ossa tarsali e metatarsali (Fig. 10). Per quanto concerne lo scheletro assiale è stata rilevata anche la fusione dell’articolazione sacro-iliaca di destra. La diagnosi differenziale ha preso in considerazione, tra le altre poliartropatie, in particolare l’artrite psoriasica, che tuttavia è stata esclusa per diverse ragioni. Innanzitutto manca il coinvolgimento spinale, presente nelle manifestazioni artritiche della psoriasi; infatti la fusione del tratto cervicale è imputabile ad una patologia congenita (sindrome di Klippel-Feil); mancano inoltre le lesioni tipiche dell’artrite psoriasica, come quella detta a “penna nel calamaio”, in corrispondenza delle falangi delle mani e dei piedi; ancora, fatta eccezione per il carpo, nell’artrite psoriasica i massicci fenomeni di ossificazione articolare sono rari. Un ulteriore elemento che depone a sfavore di tale diagnosi è la completa assenza, nelle fonti documentarie, di alcun riferimento a lesioni dermatologiche, che normalmente precedono anche di diversi anni le manifestazioni artritiche, e che i medici di corte non avrebbero mancato di riferire. La diagnosi formulata per questo grave quadro artritico è stata di artrite reumatoide in fase avanzata, una malattia infiammatoria cronica, autoimmune, che colpisce le articolazioni in maniera simmetrica, giunta nel caso di Carlo ad uno stadio assai tardivo.
Le caratteristiche erosive del processo infiammatorio possono progredire infatti fino alla distruzione dell’osso juxtarticolare e all’anchilosi (17).
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