Roberta Antonelli
Istituto Storico Lucchese
Sezione di Storia della Tanatologia
La lepra
Che  i malati di lebbra si ricoverassero in appositi ospizi lontani dagli altri, lo dimostrano l’ospedale di San Lazzaro fuori della città; quello di San Lazzaro di Strignano o Restrignano nella piana di Coreglia e case di lebbrosi detti “malattie” a Lunata,  Porcari, Ruota. 
Per costringere i malati al ricovero furono presi particolari provvedimenti il 15 gennaio 1465 quando il Consiglio Generale elesse tre cittadini che furono detti “Sulle Provvisioni della Lebbra” dando loro la medesima autorità del consiglio stesso. L’11 febbraio dello stesso anno fu fatto un regolamento con il quale fu stabilito il modo di riconoscere quei malati e, quindi, con pene severissime per chi avesse disobbedito, costringerli alla segregazione e all’abitazione coatta nell’ospedale di San Lazzaro.
Per l’esecuzione di questa legge, fu ordinato un nuovo Uffizio di tre uomini in carica per un anno alla stessa stregua delle altre balie straordinarie.
Tali disposizioni furono mantenute fino a che la malattia non scomparve[1].
Paolo di Poggio, nella seduta del Consiglio Generale dell’11 gennaio 1465, propose l’elezione di tre cittadini che avessero l’incarico di formulare leggi e ordinamenti intorno alla lebbra al fine di evitare il contagio[2].
La proposta del Consigliere fu attuata il mese successivo quando il Consiglio passò all’effettiva nomina di tre cittadini “super provisionibus et ordinamentis”; l’incarico era valido per tutto il mese di febbraio[3].
I tre cittadini andavano a costituire l’Uffizio sopra la lebbra che durava in carica un anno; a dicembre veniva rieletto e  fra l’una e l’altra elezione doveva esserci una vacanza di  tre anni. Le persone nominate dovevano, in primo luogo, giurare  nelle mani dei Signori di compiere “remotis odio amore timore et quolibet alia humana gratia” tutte quelle cose necessarie a impedire l’infezione; dovevano giurare di esercitare il loro ufficio sotto la pena di 25 ducati d’oro, che era prevista anche per i Signori che non avessero adempito all’elezione dell’ufficio stesso.
Spettava all’Offizio far sì che gli infetti non abitassero con i sani, bensì fossero ricoverati nell’ospedale di San Lazzaro; per non ritardare i rimedi finalizzati all’isolamento dei malati, l’ufficio doveva rispettare delle modalità ben precise. Dal momento in cui fosse giunta notizia che nella città o nel contado fosse presente qualche persona sospetta di essere colpita dalla lebbra, entro 8 giorni, doveva essere obbligata a comparire in Lucca e entro 15 giorni  a presentarsi all’Uffizio pena 25 ducati d’oro con sentenza del potestà al quale i tre cittadini avevano l’obbligo di comunicare l’inadempienza.
Per aver la certezza che il sospetto fosse veramente infetto, l’Uffizio lo faceva visitare da tre medici, obbligati a giurare di fare un consulto sincero, che erano pagati dal Camerario generale secondo la cifra stabilita dall’Uffizio stesso.
Se la persona risultava sana veniva mandata a casa, se era veramente ammalata doveva sottostare ad una procedura assai lenta; infatti poteva essere ricoverata a San Lazzaro soltanto dopo che l’Esattore della Curia aveva annotato su un apposito registro tutta la descrizione in modo che “per sempre compaia”.
A San Lazzaro il lebbroso doveva vivere con gli altri infetti senza più uscire, né tornare alla propria abitazione sotto pena di 100 scudi d’oro, pena che fu prevista anche per quelle autorità che non si fossero prodigate a espellere gli infetti.
Provvedimenti furono stabiliti anche per i sani ai quali fu proibito di accettare nella propria casa o anche in una semplice capanna persone dichiarate infette sotto pena di 25 ducati d’oro da consegnare immediatamente per metà alla Camera lucchese e per metà all’accusatore che doveva restare segreto.
Questi ordinamenti furono comunicati a tutte le autorità della Repubblica con l’avviso che chi avesse contravvenuto sarebbe stato punito con la multa di 25 ducati d’oro[4].
Non si hanno note di altro genere nel registro su cui furono descritti gli ordinamenti fino al primo marzo 1569. In quel giorno compaiono i nomi dei tre cittadini che costituirono l’Uffizio e cioè: Tomasius Iusti, Petrus Gratta e Niccolò Lancilotti. I tre si riunirono nel palazzo degli Anziani, lessero gli ordinamenti, giurarono di svolgere il loro incarico con serietà e onestà, quindi deliberarono di scrivere ai vicari e ai commissari, dandone l’incarico al cancelliere Giovan Battista Vecoli il quale, alle autorità di Montignoso, Camaiore, Nozzano, Borgo, Bagni di Lucca, Coreglia, Castiglione, Minucciano, Villa, Gallicano, Seimiglia, scrisse: “Desiderosi di tener purgata la città dal male della lebbra et in executione delle leggi sopra ciò fatte dal magnifico et illustrissimo Consiglio, con questa vi preghiamo che venendo avanti di voi li offitiali  vostri, per altri affari come occorre, siate contento con vostra comodità advertirli et exortarli a cercar diligentemente, se in li lor comuni respective vi si ritrovi alcuno di qual si voglia sexo, o, conditione che sia di tal male infecto, et ritrovatone qualcuno, a darcene notitia quanto prima, affinché possiamo exequire l’autorità nostra contra tali infecti, et purgare di questo male la città et territorio  nostro conforme ali decreti del magnifico Consiglio. Ne essendo questa per altro con questo fine vi ci raccomandiamo pregandovi ogni felicità et contento (omissis)”[5].
Il caso di Nina
            Il 26 marzo 1569 l’Uffizio si riunì per decidere intorno al caso di Paolo di Giovanni e Nina di Benedetto abitanti a Pontito sospetti di essere ammalati di lebbra. Con l’autorità che il Consiglio aveva concesso, ordinò  che si presentassero dinanzi all’Uffizio il giorno seguente a quello in cui avessero ricevuto l’ordine; nel caso non avessero obbedito sarebbero incorsi nella pena stabilita di 25 scudi.
            Il nunzio incaricato consegnò l’invito il 2 aprile e lo stesso fu dato  a ser Paolo Blaci che poteva così testimoniare l’avvenuta consegna[6].
            Nonostante l’ordine delle autorità, Nina non comparì e allora le fu intimato di presentarsi  per spiegare la causa di questa sua inadempienza con una citazione portata dal nunzio che ne fornì copia anche ad teste[7]. Paolo, invece, si era premurato di andare a farsi visitare e i medici dichiararono che non era affetto dal morbo perciò l’Uffizio lo lasciò tornare a casa[8].
            Finalmente Nina si presentò all’Uffizio riunito nel palazzo degli Anziani: dopo la lettura della relazione dei medici le fu comunicato che era ammalata di lebbra e come tale  doveva esserle impedito il contatto con gli altri e specialmente doveva essere isolata dai figli. Siccome Nina aveva affermato che stava per arrivare il fratello con suo figlio e che, successivamente sarebbe uscita dal territorio lucchese, l’Uffizio  acconsentì che per tutto il mese di maggio stesse rinchiusa nella propria casa senza parlare o contattare alcuna persona e soprattutto i figli.
In effetti i membri dell’Uffizio non riuscirono ad essere molto severi, infatti, pur riconoscendo la gravità del caso, ritennero di doverle dare la possibilità di ascoltare la messa nei giorni di festa restando separata dagli altri, meglio se fuori della chiesa; poteva ricevere la comunione, ma non “in eodem vasu in quo aliis generaliter datur” sotto pena di 25 scudi e della fustigazione.
            L’Uffizio non si limitava a comunicare all’interessato i provvedimenti adottati nei suoi confronti, per essere certo che fossero noti a tutti, ne inviava una copia al sindaco del comune che ne dava comunicazione nella domenica successiva, approfittando della molta gente intervenuta ad ascoltare gli uffizi divini,. Così avvenne anche in questo caso, per cui Nina fu dichiarata pubblicamente malata di lebbra, proibendo a tutti di avere qualsiasi contatto con lei.
I tre dell’Uffizio non potevano avere la certezza che tutta la procedura fosse stata messa in atto, perciò chiesero al Commissario di Pontito che comunicassero loro l’avvenuta esecuzione dei loro ordini entro 10 giorni in modo da poter nuovamente intervenire obbligando Nina a partire come aveva promesso o a farsi internare a San Lazzaro. Il 27 maggio 1569 il Commissario comunicò all’Uffizio che la donna non era più nel territorio lucchese e si stava dirigendo verso Roma[9].
Altri casi
            Bertone era il “questuario” dello spedale di San Lazzaroe, come era solito fare, andava in città “ad questuandum”, colpito dalla malattia fu costretto a rimanere segregato “in loco solito” senza più uscire dal lazzaretto fino alla sua morte[10].
Il 6 settembre 1568 Giuseppe Silvestri di Crasciana fu invitato a comparire davanti all’Uffizio, entro 15 giorni, sotto pena di 25 scudi; il 20 avutolo in sua presenza gli comandò che non frequentasse nessuno, né dormisse con qualcuno, ma stesse nella sua casa “a mangiare e dormire” da solo[11].
Pietro Compagni da Pisa fu citato il 18 dello stesso mese a presentarsi alle “hore 20”, ma non sappiamo se ciò avvenne[12], mentre abbiamo notizia della citazione nei confronti di Cristoforo Martelli di Novara, oste alla Fratta e di Antonio Maria dal borgo di Valditaro, soldato di guardia. A costoro, il 27 novembre  fu consegnato l’ordine di presentarsi il lunedì seguente.
Riuniti con i medici riconobbero Cristoforo Martelli affetto da lebbra e lo condannarono a restare continuamente chiuso in una camera posta in casa di tale Vincenzo con l’obbligo di non uscire  e di  non conversare con alcuna persona pena il pagamento di 100 scudi d’oro d’Italia da versare alla Camera Di Lucca per una terza parte, per un terzo all’accusatore e per l’altro all’esecutore[13].
Nel 1570 furono nominati Dino Gregorio Cantarini, Lorenzo Trenta e Baldassarre Guidiccioni, ma non ci risulta che convocassero persone sospette di essere ammalate che, invece, si ripresentarono nel 1572 con l’offizio nominato per quell’anno[14].
Dopo aver esaminato Tomeo di Nanni da Controne chiamarono Francesco Maria Orsucci e Giuseppe Nobili “per consultare il caso”. Essi non rilevarono alcun sintomo sospetto e quindi lo lasciarono andare via, ma con l’accordo che, prima in settembre  e poi nel mese di aprile dell’anno seguente, si ripresentasse per essere nuovamente visitato[15].
L’essere ricoverate a San Lazzaro o isolate nella propria casa dipendeva, probabilmente, dalle condizioni della struttura così sembrerebbe leggendo il caso di Pippa  una volta moglie di Caco da Gragnano. La donna, riconosciuta ammalata di lebbra, doveva essere isolata dagli altri e, non essendo sicura la sua abitazione per una tale segregazione, fu ordinato il suo ricovero allo spedale  di  San Lazzaro prendendo a Cecchino Cachi di Gragnano, per pegno di donna Pippa, quanto spettava allo spedale stesso[16].
In quello stesso 1572 fu mandata la citazione anche a Nanni Mariani e Matteo Ventura di Controne; la citazione decisa il 22 luglio fu regolarmente consegnata il 25, ma non sono registrati gli sviluppi[17].
Bernardo Berti, Nicolao Federighi e Ascanio Santini, costituiti in Offizio per il 1574, fecero chiamare Maria figlia di Giannino di San Martino, abitante nel comune di Sant’Alessio, perché si presentasse dinanzi a loro nella chiesa di Santa Maria dei Servi entro 15 giorni, pena la solita multa di 25 scudi[18]. Di Maria non si hanno notizie fino all’anno successivo: Gregorio Cantarini, Vincenzo Menocchi e Vincenzo di ser Alberto Bambacari, componenti l’Uffizio per quell’anno, avuta una denunzia contro di lei presentata da mastro Francesco da Gattaiola muratore, deliberarono che fosse fatto un consulto nei suoi confronti. Fu invitata a presentarsi precisando che se non l’avesse fatto sarebbe stata subito condannata a pagare i 25 scudi; Maria si presentò il 21 di maggio, ma non poté essere visitata per l’assenza di uno dei medici. Si presume che fosse rimandata a casa perché soltanto in novembre la ritroviamo al cospetto dei medici, i quali ritennero che non fosse ammalata[19].
Di diverso avviso furono nei confronti di un tale abitante alla Rocca del Borgo, che non fu giudicato ammalato, ma avendo forti sospetti nei suoi confronti gli ordinarono di non avvicinarsi alla fontana della Rocca dove tutti attingevano l’acqua per i tre anni successivi pena l’esilio. Di questa decisione fu informato il Vicario del Borgo perché facesse eseguire quanto stabilito e ne mandasse una relazione[20].

La vicaria di Camaiore e la lebbra
Già nel 1442 casi di lebbra si erano verificati nel castello di Camaiore, come si evince dal verbale della seduta del Consiglio del 28 agosto 1442 che riporta la presenza di malati in sesto San Vincenzo. Data la notizia, fu deciso che non potessero rimanere e che dovessero essere trasferiti in altro luogo per impedire il contagio. Nella stessa adunanza fu letta la richiesta di Tomeuccio di Pietrasanta che desiderava diventare uomo di Camaiore e, in cambio di un salario e di una casa o anche della sola casa, si dichiarava disposto ad aiutare i malati di lebbra. Dopo aver discusso la proposta di Tomeuccio, il Consiglio decretò che gli fosse data una casa dove abitare[21].
Prima che Lucca prendesse quei provvedimenti legislativi per impedire il contagio dalla lebbra e di cui abbiamo detto, a Camaiore gli uomini, riuniti a Colloquio su mandato del Vicario che in quell’anno era Pietro de’ Guinigi, dovettero affrontare nuovamente  l’argomento. Infatti il Vicario informò che in Camaiore abitavano persone, tanto maschi quanto femmine, che sembrava fossero affette dal male della lebbra e, per verificare la fondatezza di queste voci,  propose di assumere un medico esperto, con giusto salario, che esaminasse quelle persone in modo da stabilire se veramente fossero ammalate. Riccomello Guasparini, uno dei consiglieri, disse che il suggerimento del Vicario era ottimo per tutto il popolo di Camaiore, ma che oltre al medico era necessario celebrare delle messe per allontanare il contagio. L’assemblea rispose positivamente e, all’unanimità,  dette mandato al Vicario di provvedere al medico, di stabilire il suo salario e di far celebrare le messe[22].
Il caso di Johanna
Il primo ottobre 1464 al Consiglio intervenne anche Dominichino ser Betti con una petizione che fu letta in assemblea dal cancelliere: aveva scritto di aver condotto sua figlia Joanna “al bagno”[23] e di aver fatto tutto quello che era possibile fare in quel luogo. Dichiarò che, su incarico del vicario di Bagni di Lucca, l’aveva fatta visitare anche al medico del duca di Mantova il quale le aveva prescritto “certi rimedi” che doveva fare a casa perché a Bagni di Lucca non si potevano avere le cose necessarie. Pertanto chiedeva il permesso di poterla far entrare dentro il castello di Camaiore presentando una dichiarazione dello stesso medico che aveva prescritto la cura. Il Consiglio, dopo aver discusso l’argomento, ritenne troppo pericoloso autorizzare l’ingresso di una ammalata di lebbra nel castello e quindi  glielo vietò pur permettendo che facesse ritorno  nel territorio  della Vicaria[24].
L’argomento fu ripreso a metà novembre nell’assemblea presieduta dal vicario il quale ripropose la supplica del padre di Joanna; ricordò che era malata di lebbra, che era stata curata alle terme e ribadì che nel consiglio precedente era stato ritenuto opportuno che rimanesse fuori del castello.
Dopo l’intervento del Vicario, due consiglieri suggerirono ai Capitani di eleggere quattro prudenti uomini con il compito di informare il padre di Joanna su quello che era stato deliberato in Consiglio. Dello stesso avviso fu anche un terzo consigliere che ribadì l’opportunità di negare l’ingresso alla malata, quindi l’assemblea mise la proposta a votazione ottenendo il medesimo risultato negativo[25].
Il padre della ragazza tornò a  insistere con il Consiglio perché consentisse alla figlia di essere accudita dalla madre e da qualche altra donna, rimanendo in una casa appartata presso la chiesa di San Michele, aggiungendo che sarebbe uscita soltanto per ascoltare la messa celebrata nella stessa chiesa.  La richiesta, presentata nell’adunanza del 25 novembre, non ebbe esito positivo[26].
Il mese seguente Domenichino Betti  ritornò in Assemblea presentando nuovamente la sua supplica:
“Il vostro fedele servitore Domenichino di Betto vostro homo expuone humilmente davanti a voi Spettabile Messer lo Vicario, honorevoli Capitani e tutti altri prudentissimi Consiglieri[27]. Come conciò sia che lo vostro consiglio già più tempo fa celebrato fusse deliberato che siando stata Johanna mia figliola a Bagni di Chorsena per doversinchurare et havendo lei hauti certi remedi et medicine dal medico dell’illustrissimo Signore di Mantova che lei dovesse pigliare affermando lui ch’ella era  in???? che  havere a ridursi  a prossima sanità et havendo essa presi et facti tutti ditti remedii. E di poi siando stato qui lo prudentissimo messer Michele Diodati medico  dicto et havendo elli visto ditta Johanna, et fatto a lei ogni experiensia debita, finalmente, come a voi è noto, benché habbia iudicato ditta Giovanna essere alquanto infecta di lepra incipiente, alla quale dice essere remedio che poter ella ghuarire, pigliando certe medicine e facciendosi  quella cura che lui volerlli fare. Et a questo da termine mesi X incirca, et promette et ancho persuade che possa tornare in casa sua e maxime stando remota per essere ghovernata dalla madre già antiqua. Ecco perché ricorre e supplica ai piedi  humilmente  che cognosciuta la verità delle sopradette cose, vi sia di piacere e permettiate che ditta Johanna entri in Camaiore che stia in casa sua remota e dispartita da ogni persona, e più da tutta la famiglia sua et che solamente la habbia a ghovernare la madre sua per havere li agi e comodi suoi, acciò possi fare la cura che per lo anteditto  medico Michele  li sia ordinata. Considerando votre prudensie quanto sia fragile il femineo  sexo  e quanto sia di havere riguardo al honore loro. E più ancho cognosciuto quanto dispendo et incomodo ne seghuirebbe dessoi Domenichino che a tutto si debbeno vostre prudensie havere compassione siando lui creatura vostra raccomandandosi sempre a quelle. Offrendosi sempre a dare ogni securità che a voi piacesse”[28].
Ascoltata la nuova supplica del padre di Johanna, il Consiglio passò a discutere quindi  a votare e, finalmente, la richiesta riuscì a passare con 23 voti affermativi contro 3 negativi. A Johanna fu permesso di tornare a casa sua per essere assistita dalla vecchia madre che le avrebbe dato i “rimedi” prescritti dal medico di Mantova.

[1] S. Bongi, Inventario dell’Archivio di Stato, vol. I, p. 219.
[2] A. S. L., Consiglio Generale, 19, p. 26, 11 gennaio 1465. I tre cittadini rispettabili nominati erano scelti uno per terziere.
[3] A. S. L., Consiglio Generale, 19, p. 44, 8 febbraio 1465.
[4] A. S. L., Consiglio Generale, 19, pp. 48-49, 15 febbraio 1465. Gli ordinamenti sono conservati in Archivio di Stato in Lucca nel fondo Offizio sopra lebbra, 1, cc. 1-15.
[5] A. S. L., Offizio sopra la lebbra, 1, c. 16d., 7 marzo 1569.
[6] A. S. .L., Offizio sopra la lebbra, 1, c. 16, 26 marzo 1569.
[7] A. S. L., Offizio sopra la lebbra, 1, c. 16, 15-16 aprile 1569.
[8] A. S. L., Offizio sopra la lebbra, 1, c. 17, 15 aprile 1569.
[9] A. S. L., Offizio sopra la lebbra, 1, c. 18, 27 maggio 1569.
[10] A. S. L., Offizio sopra la lebbra, 1, c. 16, 29 marzo 1569.
[11] A. S. L., Offizio sopra la lebbra, 1, c. 24, 6-20 settembre 1569. Se Giuseppe non avesse obbedito avrebbe dovuto pagare i soliti 25 scudi di multa.
[12] A. S. .L., Offizio sopra la lebbra, i, c. 25, 18 settembre 1568.
[13] A. S. L., Offizio sopra la lebbra, 1, c. 25, 23 dicembre 1568. La pena prevista in caso di contravvenzione eramolto più alta rispetto alle altre, non ne conosciamo il motivo.
[14] A. S. .L., Offizio sopra la lebbra, 1, c. 19. I tre incaricati restarono in carica per tutto il 1570.
[15] A. S. L., Offizio sopra la lebbra, 1, c. 26, 29 maggio 1572.
[16] A. S. L., Offizio sopra la lebbra, 1, c. 27, 12 luglio 1572.
[17] A. S. L., Offizio sopra la lebbra, 1, c. 28, 22-25  luglio 1572. Per il 1573 furono eletti a comporre l’Offizio Tomas Iusti, Giuseppe Terricciola, Tomas Mei, ma non fu visitata alcuna persona, ivi, c. 29.
[18] A. S. L., Offizio sopra la lebbra, 1, c. 30, 29 aprile 1574.
[19] A. S. L., Offizio sopra la lebbra, 1, c. 31, 2-5-21 maggio 1575.
[20] A. S. L., Offizio sopra la lebbra, 1, c. 32, 20-21 novembre 1576.
[21] A. S. L., Deliberazioni del Consiglio, 113, c. 143, 28 agosto 1442.
[22] A. S. C., Deliberazioni del Consiglio, 116, cc. 24-25, 29 luglio 1464.
[23] Per “bagno” si intendono le terme di Bagni di Lucca.
[24] A. S. C., Deliberazioni del Consiglio, 116, c. 28, 1 ottobre 1464.
[25] A. S. C., Deliberazioni del Consiglio, 116, c. 29, 18 novembre 1464.
[26] A. S. C., Deliberazioni del Consiglio, 116, c. 30, 25 novembre 1464.
[27] I Capitani erano due, i Consiglieri 23 e costituivano due parti e oltre degli uomini e degli invitati del Consiglio.
[28] A. S. C., Deliberazioni del Consiglio, 116, c. 30, 2 dicembre 1464