di Gino Fornaciari


 


Esiste una disciplina in Italia e nel mondo, chiamata paleopatologia, la quale coinvolge oramai un numero consistente di ricercatori, che si prefigge lo scopo di studiare i fenomeni patologici del passato. Questo tipo di studi, come è facile intuire, ha una grande importanza medica – permette infatti di confrontare le patologie antiche con le attuali e di coglierne sviluppi e mutamenti – e soprattutto storica, dato che la ricostruzione dell’ambiente patologico antico contribuisce in modo sostanziale alla ricostruzione del quadro storico dell’ecosistema umano. Le malattie infatti non sono isolabili come entità astratte dall’ambiente in cui operano ma sono la conseguenza di mutamenti spesso indotti dall’uomo. Premesso questo, si comprenderà come l’unica maniera di accedere senza mediazioni a queste importanti informazioni è ricavarle dallo studio dei corpi umani antichi. Aggiungiamo a quanto detto che i migliori “contenitori” di informazioni, veri e propri archivi biologici, come sono anche stati chiamati, sono i corpi mummificati, che conservano oltre allo scheletro i tessuti molli.


Non è naturalmente un caso se molti dei corpi mummificati appartengono a personaggi che godevano nell’antichità di notevole prestigio, ed ecco perché molti dei migliori casi di studio vanno ricercati tra personaggi celebri, mummificati o di cui comunque è stata garantita una buona conservazione. Ne sono un esempio lampante proprio i corpi dei santi, conservati per motivi di culto, ma che dal punto di vista paleopatologico hanno la stessa importanza, ovviamente, di chi santo non è.


“La morte livella ogni cosa” e “tutti siamo uguali di fronte alla morte” sono espressioni entrate nell’uso comune ma che non corrispondono necessariamente al destino del corpo, specie se si tratta del corpo di qualche personalità del passato. L’apertura dei sepolcri monumentali ha anche un altro valore aggiunto, ed è quello di constatare lo stato di conservazione del defunto, se è vero che questo rappresenta un bene biologico e storico da tutelare, e non è un caso che spesso simili operazioni vengano svolte proprio in occasione del restauro dei monumenti funebri (vedi Cangrande della Scala riesumato a Verona nel 2004). Nel caso della riesumazione dei Medici, che spesso è tirata in ballo nelle polemiche di questi giorni, voglio sottolineare come questa abbia garantito, oltre ad ottimi risultati storico-scientifici, anche il risanamento di una situazione pesantemente compromessa dall’alluvione del 1966. Per fare un esempio, all’interno della cripta di Gian Gastone la violenza dell’acqua aveva provocato lo spostamento e la dispersione delle piccole ossa di almeno otto individui infantili della casa medicea; la riapertura del sepolcro ha permesso di ricomporre gli scheletri dei bambini a cui, sulla base delle indagini antropologiche e molecolari, sarà presto attribuita un’identità. Questa piccola premessa mi pareva d’obbligo per giustificare l’interesse puramente storico-scientifico e di tutela delle riesumazioni. Altra cosa è il clamore mediatico, spesso animato da morbosa curiosità, che purtroppo spesso accompagna simili operazioni, e che ricorda, questo sì, le riesumazioni alla Padre Pio.


Il prof. Cardini, che è recentemente intervenuto criticando la proposta di riesumazione di Galileo, avrà colto sicuramente, nelle espressioni stupefatte usate dal vescovo di Manfredonia e da certi cronisti cattolici nel descrivere l’apertura del sarcofago di San Pio da Pietralcina, un’eco di certe inventiones medievali, dove allo stupore per la conservazione del corpo si univa la percezione di dolci paradisiache fragranze: un bell’invito per gli antropologi del mondo contemporaneo ad indagare su questa persistente eredità culturale, ma non è certo la ricerca di questo stupore o al contrario una malevola volontà profanatrice che spinge i paleopatologi moderni ad aprire i sepolcri degli antenati. Anche a Piergiorgio Odifreddi andrebbe fatto presente che non c’è parentela di sorta tra la riapertura della tomba di un santo per motivi di culto, per altro pienamente legittima, e quella motivata da necessità di tutela e di conoscenza. Proprio quella volontà di conoscere e di indagare nel grande libro della natura che era propria di Galileo non sembra in contraddizione con la proposta del prof. Galluzzi, e non credo che questo vada ad inficiare o impoverire altre manifestazioni dedicate alla scienza nell’anno galileiano, anzi può arricchire la nostra conoscenza sull’uomo Galileo e soprattutto sull’ambiente nel quale quest’uomo ha vissuto e operato.


Se c’è il pericolo mediatico di incorrere nell’osservazione giornalistica morbosa sul corpo o le vicende personali di Galileo e di conseguenza dimenticare la grandezza del suo pensiero – ed è questo forse che soprattutto paventa Odifreddi – lo inviterei a soffermarsi più sugli aspetti storico-scientifici della questione, a leggere un po’ di riviste che fanno della seria divulgazione ed a riflettere sul fatto che non esistono solo la matematica e la fisica tra i campi che meritano di essere percorsi dall’ingegno umano. Se invece a turbare Odifreddi è il presunto pericolo di “profanare” il corpo dell’illustre scienziato, che andrebbe a suo dire “lasciato riposare in pace”, allora viene da pensare che sotto la scorza di ateo convinto lo stesso Odifreddi nasconda un’atavica ritrosia verso il contatto con l’”impurità” del cadavere, un’eredità antropologica che lo accomuna a certe persistenze culturali profonde, presenti anche nel mondo cattolico, ma schermate dalla sacralità attribuita al corpo del defunto.