Gino Fornaciari
Divisione di Paleopatologia
Dipartimento di Oncologia, dei Trapianti e delle Nuove Tecnologie in Medicina
Università di Pisa – Scuola Medica, Via Roma 57, 56126 Pisa
Introduzione
Lo studio dei grandi personaggi del passato in generale, e dei Santi in particolare, attraverso l’esame diretto dei loro resti, per lo più scheletrizzati ma talora mummificati naturalmente o artificialmente, ha ricevuto, in questi ultimi anni, notevolissimo impulso. Grazie all’adozione di tecniche di indagine scientifica sempre più sofisticate da parte degli antropologi e dei paleopatologi, unita alla sempre maggiore disponibilità dimostrata dalle Autorità ecclesiastiche preposte alla conservazione dei corpi, sono stati raggiunti, ed ancor più si raggiungeranno certamente in futuro, risultati insperati e insperabili. In tal modo, all’aspetto più propriamente canonico delle ricognizioni, volto all’accertamento rispettivamente dell’esistenza, della autenticità e dell’integrità delle reliquie o dei corpi dei Santi, si è aggiunto l’aspetto scientifico, mirante alla ricostruzione biologica, il più possibile completa, delle loro caratteristiche fisio-patologiche. Questi dati, ottenuti in maniera “diretta” su resti di personaggi vissuti anche molti secoli orsono, possono rivelarsi preziosi non solo per integrare le lacune della tradizione storiografica antica, ma anche e soprattutto per superare le stratificazioni agiografiche che da sempre hanno caratterizzato le “vite” dei Santi, rendendo talora difficile, se non impossibile, la comprensione della loro vera personalità.
Enrico VII
Il giorno 4 novembre 1998, nel Duomo di Cosenza, un’équipe di paleopatologi del Dipartimento di Oncologia dell’Università di Pisa guidata dal Prof. Gino Fornaciari ed affiancata dal Prof. Pietro De Leo del Dipartimento di Storia dell’Università della Calabria, ha proceduto all’esplorazione della tomba di Enrico VII. Il consolidamento e il restauro delle ossa, effettuato successivamente presso il Laboratorio di Paleontologia Umana dell’Università di Pisa, diretto dal Prof. Francesco Mallegni, ha permesso un accurato studio antropologico e paleopatologico.
Il magnifico sarcofago romano riutilizzato conteneva un unico scheletro in parziale connessione anatomica, incompleto ed alquanto frammentato, attribuibile ad un individuo adulto di sesso maschile, vigoroso, deceduto fra i 30 e i 35 anni di età, alto circa m 1.66, statura da considerare elevata per l’epoca, deposto originariamente in posizione supina e con le mani sul pube.
Le ossa di Enrico VII sono risultate molto frammentarie e quindi non rappresentano l’intero scheletro. Si conservano parte del cranio relativo ai parietali, a elementi del temporale di destra, ad alcune parti dello splancnocranio (soprattutto i due mascellari superiori, la parte sinistra della mandibola e quasi tutti i denti delle quattro arcate) (vedi silhouette); sono presenti del tronco alcune vertebre cervicali, toraciche, lombari e sacrali, rare coste frammentarie e le ossa dello sterno (manubrio e corpo).
Delle ossa appendicolari superiori rimangono alcuni frammenti delle due clavicole, la scapola sinistra, la diafisi omerale di sinistra, alcuni elementi del radio e dell’ulna dei due lati, la maggior parte delle ossa delle mani.
Dello scheletro appendicolare inferiore rimangono i due innominati molto frammentari; si conserva parte dell’acetabolo di sinistra e del bordo ischiatico e parte delle zone ischio-pubiche. I femori sono incompleti (specialmente il destro) ma sul sinistro con integrazioni è possibile calcolare la lunghezza massima. Le tibie sono ridotte a frustoli di diafisi; dei piedi rimangono il calcagno e parte dell’astragalo di sinistra.
Dal punto di vista antropologico, benché sia possibile un limitato numero di rilievi metrici, data la incompletezza del reperto, si può rilevare nel cranio una certa larghezza a livello dei parietali che presuppone una probabile forma brachioide messa ancoro più in evidenza da una volta tendente al basso; questi caratteri di solito si ritrovano nelle popolazioni germaniche, specialmente in quelle adattate alle alture o in zone tendenti alla basse temperature; ne sono un esempio i Bagiuvari, una.popolazione germanica alto medievale che occupava un tempo la Baviera (Martin Saller 1959). La fenotipia cranica di questi gruppi umani era improntata di solito ad una brachicrania a contorno cranico rotondeggiante. Le linee temporali sembrano essere state prominenti (carattere proprio del sesso maschile o comunque di individuo a forte muscolatura) e ciò non meraviglia dato che anche il muscolo massetere che come il temporale si inserisce sulla mandibola è forte (l’angolo mandibolare è everso). E’ scomparsa la sutura sagittale residua, sia internamente sia esternamente; il fenomeno non sarebbe spiegabile con l’età relativamente giovane del soggetto, ma la patologia che lo ha colpito può aver agito sul grado di ossificazione delle suture portandole ad una ossificazione e ed una scomparsa precoce. La mastoide destra, anche se molto usurata post-mortem nella parte apicale si presenta a largo impianto e robustissima proprio come di solito è nei maschi particolarmente virili. La faccia deve essere stata larga e forte; i malari sono grandi, i processi frontali dei mascellari potenti, l’apertura nasale è tendente allo stretto anche se la patologia che interessa la parte bassa dell’apertura può aver aumentato, anche se leggermente, la rima nasale. La mandibola è grande, molto angolata nel tratto latero-laterale, a corpo relativamente basso (il fenomeno può però dipendere dalla perdita in vita di M1, ciò che fisiologicamente ha portato ad un abbassamento laterale del corpo in quel punto.
La colonna dorsale ha vertebre con corpi non eccezionalmente sviluppati anche se grandi; mancano segni di osteofitosi, il che non meraviglia data l’età del soggetto e lo stato sociale di appartenenza. Il cinto scapolare mostra una clavicola sinistra (pressoché completa; della destra rimane un moncone prossimale) grande e lunga; questi caratteri ci danno due informazioni: a) confermano la sua appartenenza ad individuo maschile, b) evidenziano la larghezza delle sue spalle.
Gli attacchi muscolari sono molto forti, specialmente quelli del gran pettorale e del deltoide; questi due muscoli contribuendo all’adduzione e all’abduzione del braccio sono deputati ad ergonomie particolari che nel presente caso possono essere ipotizzate come legate ad esercizi marziali. Il frammento prossimale di destra è ancora più robusto del sinistro e ciò ci informa sul destrismo del soggetto e conferma l’ipotesi di ergonomie sotto sforzo. La scapola destra è grande, specialmente per quanto riguarda la sua larghezza; le inserzioni dei muscoli che si impiantano sul bordo ascellare sono forti, e scolpiscono tale bordo in modo evidente. Nell’omero particolarmente forte deve essere stato il capo lungo del bicipite brachiale ed il piccolo rotondo: il primo è estensore dell’avambraccio sul braccio e gli imprime un movimento di rotazione; il secondo avvicina il braccio al tronco.
Nelle ossa del cinto pelvico, molto frammentarie, si conserva tra l’altro un frammento della faccetta pubica; questa presenta una maturazione che si ritrova modalmente in soggetto con una età compresa tra i 30 e i 35 anni (più precisamente al limite inferiore dell’intervallo).
Il femore sinistro è l’unico su cui è possibile cogliere qualche carattere antropologicamente più interessante; esso risulta robusto (i. 23.4), e con un pilastro metrico debole (i. 106.3). Particolarmente interessanti sono gli attacchi muscolari relativi alla porzione della faccia posteriore individuata dalla linea aspra. Questa struttura forma nell’individuo un vero e proprio pilastro morfologico in cui si evidenziano in maniera molto massiva gli attacchi del quadricipite femorale. Abbastanza tormentato è anche l’impianto del grande gluteo il quale forma un vero e proprio cordolo che invade medialmente la fossa ipotrocanterica (mediamente sviluppata).
Il femore destro, ridotto ad alcune porzioni della diafisi, evidenzia sulla sua linea aspra (l’indice non è calcolabile per la frammentarietà del reperto) una serie di situazioni, relative agli attacchi muscolari, veramente degne di nota: la porzione in cui si inserisce il secondo adduttore si presenta tormentatissima, ricca di esostosi e con una vascolarizzazione più pronunciata che a sinistra; si nota infatti un foro nutritizio soprannumerario che non ha l’omologo sul femore di sinistra. La compatta sembra più sottile di quella dell’altro femore e l’andamento della linea aspra leggermente più sciaboliforme. Il muscolo secondo adduttore porta la coscia medialmente e le imprime un leggero movimento di rotazione laterale. Interpretando questi fenomeni sotto il profilo paleopatologico, si direbbe che questo muscolo abbia avuto contrazioni più forti dell’antimero e quindi che tutto l’arto abbia sofferto in vita una situazione di stress continuo che lo portò a mostrare questa fenotipia del tutto particolare.
Delle due patelle è la sinistra quella che si caratterizza per una forma anomale soprattutto a livello dell’apice dove, come è noto, si inserisce il tendine rotuleo. La sua estensione verso il basso, sviluppata più del doppio rispetto a quello della rotula di sinistra, fa capire che anche in questa parte dell’arto inferiore sussistevano problemi di deambulazione, come sembrano denunciarci anche le ossa lunghe (femore e fibula, vedi oltre).
Della tibia non restano che pochi frustoli insignificanti, mentre delle fibule, la destra conserva un elemento diafisario molto consistente; su di esso evidentissime e cordonellate sono le esostosi relative al muscolo tibiale posteriore; questo estende il piede sulla gamba, cioè lo flette dal lato plantare, lo porta nell’adduzione e gli imprime nel tempo stesso un movimento di rotazione mediale; il suo sviluppo particolare denuncia una situazione di stress continuo, o almeno periodico a causa di una deambulazione scorretta, che prevedeva inoltre che la punta del piede fosse spinta medialmente rispetto all’asse sagittale del corpo. Se ne deduce quindi un andamento claudicante per l’arto inferiore destro.
E’ stato possibile stimare la statura sull’unico osso più o meno completo e cioè il femore sinistro. Essa sembra aggirarsi sui 166 cm.
Il rachide è caratterizzato dalla presenza di numerose ernie intraspongiose di Schmorl a livello del rachide dorso-lombare, espressione evidente di traumi e/o di sovraccarichi ponderali nel periodo dell’adolescenza (De Sèze e Rickewaert 1979-1981), verosimilmente per la pratica dell’equitazione, e da forti attacchi muscolari. La rotula sinistra è apparsa asimmetrica, per presenza di un notevole sviluppo dell’apice inferiore, con estese reazioni periostitiche posteriori, mentre la rotula sinistra si presenta più piccola ed ipotrofica.
L’esame radiologico mostra una buona ossificazione della rotula sinistra e dell’apice, mentre la rotula destra presenta un quadro di osteoporosi diffusa, confermando il reperto macroscopico. E’ molto verosimile si tratti di una lesione secondaria ad un importante trauma dei ligamenti del ginocchio destro occorso in età giovanile, ad esempio uno strappo del tendine inferiore del quadricipite femorale, esitato in ipofunzione dell’arto omolaterale con conseguente sovraccarico e maggiore impegno funzionale dell’arto inferiore sinistro. Un’altra spiegazione potrebbe essere una mancata regressione, con abnorme ossificazione, di un nucleo di accessorio e inferiore della rotula (malattia di Sinding-Larsen-Johannson), che talora si verifica proprio in seguito a traumi o a sovraccarichi prolungati (Köhler e Zimmer 1967).
La lesione comunque, primitiva o secondaria che fosse, esprime certamente una seria compromissione dell’andatura del soggetto. Il dato è in accordo con una delle poche caratteristiche fisiche note di Enrico VII, a cui era stato attribuito il soprannome di “sciancato” (Kantorowicz, 1976).
Lo scheletro facciale mostra un riassorbimento completo della spina nasale anteriore, un vistoso rimodellamento ed arrotondamento dei margini laterali e inferiori dell’apertura piriforme, numerose lesioni erosive della zona mediale del palato, con allargamento abnorme del canale naso-palatino, un’estesa periostite della superficie nasale del palatino e una periostite bilaterale degli zigomatici. Si tratta di una sindrome rinomascellare patognomonica (Andersen e Manchester 1992), inquadrabile nella “facies leprosa” di Møller-Christensen (1983), dovuta alla grave rinite cronica muco-purulenta che accompagna clinicamente la forma lepromatosa della lebbra. Lo scheletro postcraniale appare caratterizzato, oltre che da una estesa periostite diafisaria dei femori, da un assottigliamento delle diafisi e da un riassorbimento quasi completo delle epifisi distali dei quarti metatarsali e del terzo posteriore della falange prossimale corrispondente. Si tratta di un quadro patologico caratteristico della lebbra delle estremità e in particolare del piede (Aufderheide e Rodriguez-Martin 1998).
Si può concludere per una diagnosi di lebbra lepromatosa, il tipo più grave e più diffuso in passato, in fase discretamente avanzata di evoluzione, con epoca di infezione e di esordio clinico precedente di qualche anno.
La malattia cominciò quindi certamente alcuni anni prima del decesso e le condizioni di sfiguramento che ne derivarono lo costrinsero certamente ad un isolamento forzato, fino al suo drammatico suicidio.
E’ noto che Enrico VII re di Germania (? 1211-Martirano 1242). Primogenito di Federico II e di Costanza d’Aragona, fu nominato, ancora bambino, re di Germania nel 1220. Dichiarato maggiorenne nel 1229, entrò in conflitto con Federico II favorendo la nobiltà tedesca e le rivendicazioni dei comuni lombardi. A capo di una rivolta, fu sconfitto nel 1235. Dopo essersi sottomesso, fu relegato in diverse fortezze dell’Italia meridionale e morì a 31 anni, cadendo in un dirupo e forse suicida, il 10 febbraio 1242 (Kantorowicz 1976). Sulla base di questo scenario, Federico II appare non solo un padre meno crudele verso il figlio, ma anche deve necessariamente essere assolto dal grave sospetto dell’assassinio del figlio.
Finora erano noti altri due casi di sovrani medievali affetti da lebbra. Il primo è Baldovino IV (1160-1185), re di Gerusalemme e passato appunto alla storia come "il re lebbroso", la cui malattia è ben conosciuta solo attraverso le fonti storiche (Mitchell 2000); il secondo è il re Roberto di Scozia (1274-1329), la malattia del quale è ben nota storicamente ed è anche stata diagnosticata direttamente sui resti scheletrici in base alla caratteristica facies leprosa rilevata a livello cranico (Møller-Christensen 1983). Il caso di Enrico VII è importante non solo dal punto di vista storico, ma anche in quanto costituisce la prima diagnosi osteoarcheologica di lebbra in Italia.
Gioacchino da Fiore
Il 6 novembre 1998, nell’Abbazia Florense di S. Giovanni in Fiore, la stessa équipe di paleopatologi ha proceduto all’apertura del reliquiario contenente i resti scheletrici attribuiti a Gioacchino da Fiore.
L’analisi dettagliata dei reperti presenti nel reliquiario ha evidenziato la presenza di più individui; essi sono risultati 5: un individuo maschile, rappresentato da gran parte dello scheletro (ind. N. 1); un individuo femminile rappresentato da un femore sinistro (ind. N. 2); un individuo maschile rappresentato da un femore sinistro completo, da una epifisi distale di femore destro, da una tibia sinistra non del tutto completa (ind. N. 3); un individuo rappresentato da un femore completo sinistro e da un mezzo distale di femore destro (ind. N. 4); un individuo rappresentato dai due parietali, dall’occipitale e dal temporale di destra (ind. N. 5). Tutti I resti scheletrici sono appartenuti ad individui adulti, ad eccezione di quelli dell’ind.N. 5, un bambino in tenera età.
Individuo n. 1 (Gioacchino da Fiore)
Come sopra accennato si tratta del lo scheletro osteologicamente più rappresentato (vedi silhouette). Esso è appartenuto ad un individuo maschile, dato che le ossa sono di un discreto volume, con attacchi muscolari vistosi e con ossa craniche eccezionalmente spesse (16 mm, contro i normali 8-9) e ben caratterizzate come di solito si osserva nei resti scheletrici di questo sesso.
La clavicola lunga ben 135 mm e la scapola larga (103 mm) depongono per un torace ampio (di tipo maschile) ma non particolarmente robusto. Anche il sacro, l’unico elemento integro del cinto pelvico, è di tipo iperbasale (stretto ed alto), caratteristica tipica anch’essa del sesso maschile.
L’età alla morte, dal resto di osso pubico conservatosi nella sua interezza, sembra assai superiore ai 50 anni. Non esiste altro metodo antropologico per risalire ad una età ancora più alta, ma la porosi nelle ossa e certe patologie legate anche all’età fanno pensare che l’individuo avesse superato abbondantemente il settantesimo anno di età. La statura del soggetto, calcolata sia sugli arti superiori che inferiori col metodo combinato (femore e tibia), è risultata intorno ai 175 cm, valore da considerarsi alto per il medievo. Il valore ottenuto sul femore (171,4 cm) è minore di quello ottenuto sulla tibia (179,4 cm); il fenomeno è spiegabile considerando che l’individuo poteva essere longilineo, come le popolazioni mediterranee che occupano l’attuale zona rappresentata dalle regioni Calabria, Basilicata e Puglia; questo spiega la differenza ottenuta tra la statura calcolata sul segmento distale (che dà valori maggiori in questo caso) rispetto al prossimale.
Si trattava di un individuo longilineo, caratterizzato comunque da una notevole robustezza ossea, evidente soprattutto a livello degli arti inferiori. Infatti i due omeri risultano euribrachici (rotondeggianti) e l’ulna sinistra è ipereurolenica, cioè poco modellata dall’attività muscolare. I femori appaiono ipereuromerici (rotondeggianti) ma con pilastro forte, mentre la tibia sinistra è euricnemica (rotondeggiante). Il fenomeno depone per una buona struttura ossea di base.
Gli attacchi muscolari degli arti superiori, soprattutto quelli del gran pettorale e del deltoide, sono caratterizzati da una discreta, ma non eccessiva, robustezza.
Gli attacchi muscolari degli arti inferiori, soprattutto quelli del quadricipite femorale, del grande e piccolo gluteo e del soleo della tibia) risultano invece notevolmente sviluppati, tanto da far pensare ad un individuo particolarmente impegnato in attività deambulatoria.
Dal punto di vista più strettamente patologico si segnalano gli esiti di gravi periostiti a carico della superficie mediale e laterale della tibia sinistra e delle due fibule. Si tratta di reperti frequenti nelle serie scheletriche antiche, provocati in genere da infezioni sottocutanee per microtraumi ripetuti sulle gambe scoperte, in seguito a deambulazione su terreni impervi e con bassa vegetazione.
È’ comunque l’artrosi articolare, in genere modesta, il quadro patologico più diffuso in quanto compare a livello delle articolazioni scapolo-omerali, del gomito destro e delle ginocchia. Anche l’artrosi vertebrale, osservabile a livello del tratto toracico medio e lombare, appare modesta e rappresentata solo da una modesta osteofitosi marginale. Il fenomeno, assai modesto nonostante l’età avanzata, è verosimilmente da porsi in relazione con uno scarso sovraccarico ponderale, associato ad una notevole attività motoria. Un certo grado di osteoporosi, notato comunque a livello dei corpi vertebrali, può essere spiegato con l’età o con un periodo di inattività fisica durante gli ultimi mesi di vita.
Particolarmente evidenti infine risultano gli esiti di una grave periostite del ginocchio, in corrispondenza della tuberosità tibiale anteriore. Si tratta di una lesione rara nelle serie scheletriche antiche, da considerare quasi peculiare del soggetto in studio.
Si può concludere per un individuo di statura elevata, piuttosto longilineo, vigoroso, con attività fisica, soprattutto deambulatoria, intensa ma non gravosa, che impedì l’insorgere dei fenomeni osteoporotici tipici dell’età avanzata.
Mi sembra doveroso citare a questo proposito le “Memorie” di Luca Campano, arcivescovo di Cosenza dal 1203 al 1224, allievo e fedele trascrittore delle prime opere del Maestro e quindi testimone oculare del suo aspetto fisico e delle sue abitudini di vita, che confermano in pieno i dati dello studio paleopatologico.
Luca scrive infatti che Gioacchino:
“fu straordinariamente resistente nel lavoro manuale, al quale molto spesso si applicava con gioia insieme con i confratelli. Robusto di corpo, si curava poco del freddo o del caldo, della fame o della sete”;
“spesso a puliva personalmente tutta l’infermeria”;
“scendeva da cavallo e costringeva il proprio servo a salire per un buon tratto in sella, mentre egli proseguiva a piedi”;
infine “aveva ottenuto da Dio la possibilità di astenersi dai cibi e dalle bevande; e quanto più si asteneva, tanto più agile e forte appariva”.
CITAZIONI BIBLIOGRAFICHE
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