GINO FORNACIARI*

*Università di Pisa

  Dipartimento di Oncologia, dei Trapianti e delle Nuove Tecnologie in Medicina
  Divisione di Paleopatologia, Scuola Medica, V. Roma 57, I-56126 PISA
  g.fornaciari@med.unipi.it

La paleopatologia, come dice il nome, è la scienza che studia le malattie di un passato più o meno remoto attraverso l’esame diretto dei resti umani antichi, scheletrici o mummificati. Solo in questi ultimi anni essa ha assunto la configurazione di disciplina autonoma, basata sui metodi dell’anatomia patologica ma con apporti notevoli dell’antropologia e dell’archeologia. Questo tipo di approccio la differenzia nettamente dalla storia della medicina, che studia invece l’evoluzione del pensiero medico basandosi esclusivamente su fonti storico-letterarie. Naturalmente la paleopatologia si avvale anche dei dati forniti dalla storia della medicina, che costituiscono un aiuto prezioso per l’interpretazione dei quadri patologici di età storica. L’importanza della paleopatologia deriva perciò dal fatto che essa, o meglio i reperti che giungono all’osservazione dei paleopatologi, costituiscono l’unico punto di contatto concreto fra la Medicina attuale, con le sue moderne tecnologie biomediche, e le malattie del passato.
Lo studio della paleopatologia riveste un duplice interesse: antropologico e medico.  Antropologico perché la patologia, cioè l’insieme delle malattie che caratterizza qualsiasi società umana dalla più semplice alla più complessa, non è affatto un evento casuale ma è invece espressione dell’interazione fra l’uomo e l’ambiente, naturale e artificiale, in cui ogni società si trova immersa; perciò il suo studio può fornire importanti elementi per la comprensione della società stessa (Ackerknet 1953).
Medico in quanto la sicura determinazione dell’epoca di insorgenza e delle modalità di diffusione e di evoluzione di alcune importanti patologie, come le malattie infettive, l’aterosclerosi o il cancro, non può che suscitare un altissimo interesse nel campo della Medicina.
Certo, in questo importante e diremmo generoso tentativo la paleopatologia incontra notevolissime difficoltà, talora purtroppo insormontabili. I reperti paleopatologici sono rari, tanto più rari quanto più lontano si addentrano nel passato e, quel che è peggio, talvolta poco chiari nella loro interpretazione. Pure con questi limiti anche la paleopatologia scheletrica che, per la relativa abbondanza dei materiali di studio disponibili, costituisce il settore attualmente più indagato, può fornire informazioni preziose sulle malattie del passato.
Gli studi più completi possono essere però effettuati solo sui resti umani rinvenuti nelle migliori condizioni di conservazione, cioè sulle mummie. Dobbiamo precisare a questo proposito che per mummia si intende qualsiasi corpo umano conservatosi per i motivi più diversi, come congelamento, conservazione in torba o disidratazione, e non necessariamente un corpo imbalsamato, cioè trattato artificialmente a fini conservativi come è il caso delle classiche mummie egizie.

In questi ultimi anni i metodi di studio delle mummie si sono notevolmente perfezionati. Si è infatti scoperto che, dopo reidratazione, campioni di organi antichi possono essere processati con le normali tecniche istologiche. Infatti, le osservazioni al microscopio ottico ed elettronico dei tessuti antichi hanno dimostrato che molto spesso le cellule risultano in uno stato di conservazione che non differisce da quello dei campioni moderni, fissati allo stato fresco (Fulcheri – Ventura 2001).
In Italia centro-meridionale i complessi di mummie sono, per cause climatiche, relativamente numerosi. Si tratta per lo più di deposizioni di età rinascimentale o moderna, ma non mancano quelle medievali,   e   tutte   costituiscono   un   materiale paleopatologico prezioso ancora quasi tutto da studiare.  La numerosità per campione varia da alcune decine di individui a diverse migliaia, come le celebri Catacombe dei Cappuccini di Palermo (secoli XVI-XIX).
La sezione di Paleopatologia dell’Università di Pisa afferente al dipartimento di oncologia, dei trapianti e delle nuove tecnologie in medicina, si è specializzata da tempo nello studio di questo tipo di materiali, ottenendo risultati di grande rilevanza scientifica, che la hanno inserita a pieno titolo fra i più importanti gruppi di ricerca in questo settore a livello internazionale.
I risultati più brillanti sono stati ottenuti nel campo delle malattie infettive e in quello dei tumori.
Per quanto riguarda le malattie infettive, i primi tentativi di identificazione di microrganismi patogeni (virus e batteri) in tessuti antichi, effettuati con metodo e rigore scientifico, risalgono agli anni ‘70, ad opera di un gruppo di ricercatori dell’Università della Virginia e del Museo peruviano di Ica, in mummie precolombiane del Perù e del Cile (Allison – Gerszten 1982). Furono identificate particelle simil-virali morfologicamente compatibili con un myxovirus (Dalton et a. 1976) e batteri alcool-acido resistenti in lesioni patologiche molto suggestive per tubercolosi polmonare e renale (Allison et a. 1981), mentre fu fatta diagnosi sicura di infezione da Bartonella bacilliformis (Allison et a. 1974) e da Paracoccidioides brasilensis (Allison et a. 1979). Successivamente, nei primi anni ‘80, furono evidenziate particelle simili a poxvirus nella cute del faraone Ramsete V, deceduto verosimilmente per vaiolo (Lewin 1984), e di alcuni inumati in una cripta di Londra nella prima metà del XIX secolo, recanti anch’essi una suggestiva eruzione cutanea. Un tipico papillomavirus fu inoltre identificato in una verruca di un bambino Inca deceduto nel periodo immediatamente precedente la conquista spagnola (Horne et a.  1984).
Fu proprio negli anni ’80 che la sezione di Paleopatologia di Pisa dette inizio allo studio sistematico delle mummie conservate nel nostro paese, procedendo alla loro schedatura e al relativo esame autoptico od endoscopico.
Tra le serie più numerose ed importanti studiate in quel periodo spicca quella rinascimentale della Basilica di S. Domenico Maggiore a Napoli, comprendente 30 deposizioni di sovrani e principi della dinastia Aragonese di Napoli (XV-XVI secolo), e quella della Chiesa di S. Maria della Grazia in Comiso (Ragusa), comprendente 50 deposizioni, in prevalenza di età moderna (XVIII secolo) (Fornaciari 1998).
I nostri studi di paleomicrobiologia si indirizzarono in particolare all’identificazione di antichi agenti patogeni, come virus, batteri e protozoi, tramite l’applicazione ai tessuti mummificati di tecniche istochimiche, immunoistochimiche ed ultrastrutturali, seguita ove possibile da amplificazione del DNA specifico tramite la reazione a catena della polimerasi (PCR), allora di recente scoperta, e successivo sequenziamento. Si rese così disponibile per i paleopatologi un nuovo   approccio   diagnostico diretto all’identificazione degli agenti infettivi antichi.
Ad esempio, dopo la diagnosi macroscopica ed istologica di vaiolo in una mummia infantile della Basilica di S. Domenico Maggiore a Napoli (XVI secolo), fu effettuato un esame ultrastrutturale di campioni di pustole cutanee, che rese possibile l’identificazione di particelle simil-virali compatibili, per dimensioni e morfologia, con i poxvirus. Il trattamento con anticorpi specifici anti-virus vaccinico e del vaiolo umano rivelò, sempre al microscopio elettronico e tramite la tecnica dell’immunogold, l’avvenuta reazione antigene-anticorpo, dimostrando una straordinaria conservazione delle strutture virali (Fornaciari et al. 1986). Seguì con successo l’ibridazione molecolare con DNA del virus vaccinico umano che confermò ulteriormente, se ce ne fosse stato bisogno, l’avvenuta identificazione.
Una ulcera cutanea, con relativa fasciatura, riscontrata nella mummia di Maria d’Aragona, una nobildonna napoletana deceduta nel 1568 in piena “epidemia” sifilitica mostrò, su sezioni di tessuto trattate con anticorpi specifici ed esaminate all’immunofluorescenza, un gran numero di filamenti con i caratteri morfologici delle spirochete cui fece seguito, al microscopio elettronico, la definitiva identificazione come Treponema pallidum, l’agente eziologico della sifilide venerea (Fornaciari et a. 1989).
La possibilità di diagnosi molecolare di infezione virale nelle mummie fu resa concreta da uno studio effettuato sul DNA estratto dalla stessa ulcera cutanea. L’analisi della sequenza nucleotidica di frammenti di DNA permise infatti di individuare un breve tratto (24 bp) la cui sequenza è complementare a quella della open reading frame II (ORF2) del genoma di HEV, il virus dell’epatite E (Marota et a. 1999). Il ritrovamento della sequenza virale associata al materiale cellulare della mummia di Maria d’Aragona suggerisce che il virus sarebbe stato presente nella popolazione mediterranea già in epoca rinascimentale.  Più recentemente il DNA estratto da un tipico condiloma acuminato reperito sulla stessa mummia ha permesso l’amplificazione di una sequenza (141-151 bp) tipica del virus del papilloma umano (HPV). Il relativo sequenziamento ha evidenziato la presenza dei ceppi HPV18 e JC9813, rispettivamente ad alto e basso potenziale oncogenico (Fornaciari et al. 2002). Questo studio rappresenta non solo la prima diagnosi molecolare di HPV nelle mummie, ma può aprire la strada ad ulteriori ricerche sull’evoluzione di questi virus, considerati attualmente alla base di molti tumori maligni del collo dell’utero (Fornaciari et a. 2002)
Le stesse tecniche sono state applicate ai tessuti di una mummia precolombiana, datata al XIII-XIV secolo e conservata presso il Museo Nazionale di Antropologia di Firenze, la cui autopsia aveva evidenziato una sindrome megaviscerale molto suggestiva per malattia di Chagas, una grave malattia infettiva dei gangli nervosi viscerali causata dal protozoo parassita Trypanosoma cruzi. Infatti, campioni di miocardio e di esofago della mummia, dopo essere stati trattati con anticorpi specifici anti-Trypanosoma cruzi, furono esaminati mediante la tecnica immunoistochimica dell’immunoperossidasi che rese possibile l’identificazione dei tipici amastigoti intratissutali, cioè dei parassiti incistati nei tessuti. Successivamente i parassiti furono identificati al microscopio elettronico e studiati a fondo anche a livello ultrastrutturale (Fornaciari et a. 1992).
Il campione è stato poi utilizzato con successo nel 1998 come controllo positivo antico, l’unico noto fino allora, dal Laboratorio di Paleopatologia dell’Università del Minnesota per ricerche molecolari sulla diffusione della malattia di Chagas nell’America precolombiana, dando inizio ad un importante progetto di collaborazione internazionale Italia-USA. Si trattava infatti dello stesso gruppo di ricercatori che nel 1994 era riuscito ad amplificare, sempre tramite PCR, DNA specifico di Mycobacterium tuberculosis da una lesione polmonare di una mummia peruviana di epoca precedente il XIV secolo (Salo et a. 1994). Questa importante scoperta aveva dimostrato da un lato la presenza sicura di tubercolosi umana nell’America precolombiana e aveva aperto dall’altro nuove strade alle ricerche di paleomicrobiologia.
Per quanto riguarda i tumori, alla fine degli anni ‘80 il numero totale di neoplasie dei tessuti molli ben documentato in corpi umani antichi si aggirava intorno a 10.  Si trattava di un leiomioma, di un cistoadenoma ovarico, di un caso di sindrome del nevo a cellule basali e di un papilloma squamoso, diagnosticato in antichi Egizi; di un lipoma, di un melanoma e di un rabdomiosarcoma in mummie precolombiane; di un leiomioma e di un epitelioma in antichi europei (Gerszten – Allison 1991).
Le ricerche ricevettero nuovo impulso dalla scoperta, sempre ad opera del gruppo di paleopatologi di Pisa, di nuove neoplasie antiche fra cui spicca, come caso particolarmente rilevante, il tumore maligno del re di Napoli Ferrante I di Aragona (1431-1494) che riportiamo come esempio paradigmatico di studio paleo-oncologico. Nei primissimi anni ‘90 l’autopsia della mummia del sovrano aragonese aveva rivelato la presenza di un adenocarcinoma mucinoso, estesamente infiltrante le strutture muscolari del piccolo bacino. La conservazione istologica straordinariamente buona di questo tumore maligno, dovuta ai processi di imbalsamazione cui la salma era stata sottoposta, aveva reso possibile addirittura lo studio della struttura delle cellule neoplastiche al microscopio ottico ed elettronico (Fornaciari et a. 1993). Successivamente alcuni campioni dell’adenocarcinoma furono sottoposti ad un procedimento di estrazione degli acidi nucleici delle cellule tumorali. Nonostante che il DNA estratto risultasse sempre notevolmente frammentato, nell’ordine massimo di alcune centinaia di basi, fu tuttavia possibile tramite PCR amplificarne dei brevi tratti, con un protocollo “nested” o delle amplificazioni successive. Fu evidenziata così una tipica mutazione del codone 12 del gene K-ras, in cui la sequenza normale GGT (glicina) è modificata in GAT (acido aspartico) (Marchetti et a. 1996).
E’ noto che questo tipo di mutazione puntiforme è molto frequente nei carcinomi colorettali sporadici attuali e viene tipicamente indotta da agenti alchilanti. Recenti studi hanno richiamato l’attenzione sull’importanza, come agenti alchilanti, dei composti nitrosi (N-nitroso compounds o NOC) endogeni. E’ stato dimostrato che l’eccesso alimentare di carni rosse, come il manzo, l’agnello e il maiale, provoca un aumento significativo, fino a tre volte la norma, della quantità di composti nitrosi presenti nelle feci, che raggiungono addirittura i livelli riscontrati nei fumatori di sigaretta.
L’esame delle abitudini alimentari delle corti rinascimentali italiane, e in particolare di quella aragonese di Napoli, ha evidenziato appunto un elevatissimo consumo di carni rosse, come dimostrano anche le indagini paleonutrizionali. In conclusione “l’ambiente” alimentare della corte napoletana del XV secolo giustifica ampiamente, con la sua abbondanza di alchilanti naturali endogeni, la mutazione del gene K-ras alla base del tumore che uccise il sovrano aragonese oltre cinque secoli orsono (Fornaciari et a. 1999).
La scoperta dimostra che è possibile mettere in evidenza sequenze di oncogeni nei tumori antichi ed apre nuove strade, inimmaginabili solo pochi anni fa, alla diagnostica delle neoplasie.
Ultimamente alcune moderne tecniche di immagine sono state applicate allo studio delle mummie. La radiografia digitale, la TAC e l’endoscopia virtuale hanno reso possibile l’esame dei corpi mummificati anche senza autopsia, una procedura diagnostica necessariamente distruttiva e quindi lesiva dell’integrità dei preziosi reperti.
Nel laboratorio di paleopatologia dell’università di Pisa è stato effettuato il primo prelievo mirato di campioni di organi interni di mummia tramite laparoscopia, una tecnica chirurgica minimamente invasiva messa a punto all’inizio degli anni ’90. Infatti la mummia naturale di una giovane donna deceduta alla fine del XVI secolo, ritrovata nella basilica di S. Francesco ad Arezzo, presentava un’enorme tumefazione addominale (Fig. 4). La TAC e l’endoscopia virtuale, effettuate presso la sezione di radiologia diagnostica del nostro dipartimento, avevano evidenziato la presenza di una voluminosa massa uterina di incerta natura. Non essendo possibile un classico esame autoptico, in quanto il corpo appariva ancora rivestito con un prezioso costume rinascimentale, la mummia fu sottoposta a laparoscopia. L’esame istologico dei campioni prelevati durante l’esame laparoscopico dimostrò trattarsi di tessuto muscolare e fibroso tipico della parete di un utero post-gravidico e permise di formulare una diagnosi definitiva di morte puerperale a distanza di oltre quattro secoli (Ciranni et a. 1999).
I risultati ottenuti, tutti di grande interesse medico e di cui abbiamo riportato solo qualche esempio, possono dare un’idea dell’importanza delle indagini paleopatologiche e delle potenzialità insite nell’applicazione delle moderne tecnologie biomediche ai reperti umani del passato.
Da quanto esposto si può comprendere l’elevata valenza culturale della paleopatologia, che quindi risulta particolarmente adatta per una buona divulgazione scientifica.
Un problema importante è però costituito dal particolare tipo dei materiali oggetto di studio da parte di questa disciplina, costituiti in genere da scheletri umani o mummie, che ovviamente sono la più importante fonte di dati. Nella trasmissione di questo tipo di immagini occorre evitare, nei limiti del possibile, qualsiasi aspetto macabro, cercando di suscitare nel pubblico solo quella naturale curiosità scientifica utile ai fini dell’apprendimento. Occorre utilizzare quindi immagini il meno possibile "crude", limitandosi solo a quelle veramente utili dal punto di vista didattico e sempre nel massimo rispetto dei defunti. I reperti anatomici oggetto della trattazione dovranno essere inseriti nel relativo contesto storico-archeologico, per illustrare la stretta interrelazione che intercorre fra ambiente e malattia. Ciò permetterà da un lato di “alleggerire” ulteriormente l’impatto con i reperti, dall’altro di continuare a promuovere l’interesse culturale del pubblico.
Di recente ho cercato di mettere in pratica tutti questi principi in un articolo divulgativo sulla rivista Archeologia Viva, illustrando i risultati degli ultimi dieci anni di attività del mio gruppo di ricerca, con risultati molto incoraggianti (Fornaciari 2002). Un buon esempio di una corretta esposizione museale di questo tipo di materiali è costituito inoltre dalla mummia dei Musei Civici di Varese, un corpo mummificato naturalmente di un ragazzo deceduto per broncopolmonite nella prima metà del XVII secolo (Banchieri 1991).
Possiamo infine citare, fra i più riusciti esempi di film scientifici usciti dal Laboratorio di Paleopatologia dell’Università di Pisa, “Le mummie insegnano”, sullo studio paleopatologico del corpo mummificato di un condottiero rinascimentale, prodotto dal CNR di Bologna nel 1995, “Mumien von Arezzo”, sullo studio di alcune mummie tardo-rinascimentali, prodotto da Interscience Film di Heidelberg nel 1998, e “Ercolano: nuovi misteri svelati”, sui resti scheletrici delle vittime della famosa eruzione del Vesuvio del 79 d.C., prodotto dal Servizio Audiovisivi Scientifici dell’Università di Modena nel 2001.
Attraverso questi film scientifici è stato possibile “condurre per mano” lo spettatore attraverso tutte le fasi dello studio, dall’esplorazione preliminare della tomba all’esame autoptico per terminare con il DNA antico.

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