Gino Fornaciari
Professore Straordinario di Storia della MedicinaDivisione di Paleopatologia, Dipartimento di Oncologia, dei Trapianti e delle Nuove Tecnologie in Medicina, Università degli Studi di Pisa
Introduzione
La Basilica di S. Domenico Maggiore, risalente agli inizi del XIV secolo, costituisce una delle più grandi e importanti chiese di Napoli. Nell’annesso convento dei domenicani insegnò S. Tommaso d’Aquino e furono alunni l’umanista Giovanni Pontano e i filosofi Tommaso Campanella e Giordano Bruno.La Basilica di S. Domenico Maggiore, risalente agli inizi del XIV secolo, costituisce una delle più grandi e importanti chiese di Napoli. Nell’annesso convento dei domenicani insegnò S. Tommaso d’Aquino e furono alunni l’umanista Giovanni Pontano e i filosofi Tommaso Campanella e Giordano Bruno.
La monumentale sacrestia della Basilica custodisce, su un corridoio pensile posto a circa 4 metri di altezza che corre su tre lati della sala prossima alla volta, 42 casse lignee con i corpi di 10 re e principi aragonesi e di altri nobili napoletani deceduti dalla seconda metà del XV a tutto il XVI secolo. Queste casse, in origine sparse nella chiesa, furono raccolte nella sacrestia nel 1594 per ordine del re Filippo II di Spagna, ma la sistemazione attuale sul corridoio pensile è posteriore e risale al 1709 (1).
I sarcofagi, sontuosamente ricoperti di sete, di broccati e di altre stoffe preziose, appaiono disposti su due file sovrapposte: la fila più bassa è costituita da casse più piccole, per lo più anonime, mentre la fila più alta comprende casse più grandi, alcune delle quali recano gli stemmi e i nomi dei personaggi sepolti, che è quindi possibile identificare piuttosto agevolmente. Si può citare, fra gli altri, il re Alfonso I d’Aragona (deceduto nel 1458), il re Ferrante I d’Aragona (+ 1494), il re Ferrante II (+ 1496), la regina Giovanna IV (+ 1518), la duchessa di Milano Isabella d’Aragona (+ 1524) e il marchese di Pescara Francesco Ferdinando d’Avalos, vincitore della battaglia di Pavia contro il re Francesco I di Francia nel 1525 (deceduto lo stesso anno).
Ci si trova di fronte ad una serie di mummie unica in Italia non solo per l’antichità e il buono stato di conservazione dei corpi, ma soprattutto perché si tratta di personaggi storici, di cui si conosce dettagliatamente la vita e la causa della morte (ad es. la malaria per Ferrante II, la tisi per il marchese di Pescara); è stato pertanto possibile effettuare un confronto diretto e di estremo interesse fra reperti paleopatologici e dati storici.
Le vesti, talora preziosissime, degli individui sepolti sono state accuratamente recuperate, per essere poi restaurate ed esposte nella stessa sacrestia della Basilica a cura della Soprintendenza ai Beni Storici ed Artistici di Napoli (2). Tutte le mummie sono state prima radiografate e poi sottoposte ad esame antropologico ed autoptico sul posto. Successivamente, nel Laboratorio di Paleopatologia dell’Università di Pisa, si è proceduto allo studio istologico, su frammenti di tessuto reidratato, immunoistochimico, ultrastrutturale, biologicomolecolare e alle indagini paleonutrizionali (3, 4).
L’individuo oggetto di questo studio (denominato NASD 24) risultava deposto in un piccolo sarcofago della fila inferiore (Figura 4), immediatamente presso l’angolo di sinistra, nella tribuna opposta all’ingresso, vicino al grande sarcofago del re Alfonso I di Aragona. Il corpo era contenuto in due casse: in legno di pioppo (Populus sp.) quella esterna, in legno di castagno (Castanea sp.) quella più interna, a forma di bara antropoide. La datazione 14C del legno della cassa interna, effettuata presso il Physikalisches Institut dell’Università di Berna, ha dato l’anno 1569±50 (5).
Esame esterno della mummia
Il bambino risultava vestito con un abito piuttosto semplice, cucito con grossi punti, e pertanto molto verosimilmente funerario, richiamante la veste monastica dell’ordine domenicano. Appariva infatti costituito da una sopravveste (o mantello) in taffettà nero, sotto la quale si trovava un’ampia veste, in forma di tunica in faglia (un tessuto di seta) avorio, completata da un cappuccio che, al momento della scoperta, nascondeva quasi completamente il volto del defunto (6).
Tolta la veste, apparve la mummia artificiale, in buono stato di conservazione, di un soggetto infantile di circa 23 anni di età (7, 8, 9), di sesso maschile (genitali esterni evidenti), deposto in posizione supina e capo poggiato sull’occipite, con arti superiori flessi, mani sulla regione epigastrica ed arti inferiori completamente estesi. L’addome appariva espanso e globoso. La lunghezza misurata del cadavere risultò di cm 73. La cute appariva di colore marrone chiaro, con presenza di capelli, di colore biondorossiccio. L’appiattimento posteriore della regione dorsale, dei glutei e delle gambe dimostrava una precoce deposizione postmortem su un piano orizzontale rigido, mentre la presenza di solchi circolari ai polsi denotava la presenza di allacciature.
Quanto alla tecnica di imbalsamazione, la calotta cranica presentava una sutura trasversale, cucita con spago e con grossolani punti ad asola che, passando sopra la squama del frontale, congiungeva le due regioni retroauricolari; la cavità cranica appariva riempita con una sorta di ovatta di pelo di animale mista a materiale terroso e a sostanze resinose. Il torace e l’addome presentavano una lunga incisione longitudinale estendentesi dalla regione giugulare alla regione pubica, anch’essa suturata con grossolani punti ad asola; mancava lo sterno, asportato evidentemente nel corso del processo di imbalsamazione. Le cavità toracica ed addominale risultavano riempite dello stessa ovatta di pelo di animale già riscontrata nel cranio, mista a materiale terroso e a resine vegetali.
Erano presenti alcuni danneggiamenti postmortali: alla regione toracica ed addominale anteriore, per attacco di tarme e di altri parassiti; agli arti inferiori, soprattutto al destro, per fenomeni putrefattivi postmortali.
Patologia macroscopica
La cute presentava un’eruzione diffusa vescicolopustolosa, con vescicole e pustole completamente essiccate e collassate, di diametro variabile fra 2 e 6 mm, a contenuto cristallino di colore giallastro o marrone chiaro. Talora si apprezzava la presenza di una specie di ombelicatura centrale e di un orletto periferico più chiaro. Lo sviluppo era dappertutto uniforme. In alcune regioni, come il cranio ed il torace, le lesioni si approfondivano fino a raggiungere il tessuto sottocutaneo. Le zone più colpite risultavano il cuoio capelluto, il volto con le palpebre e le labbra, il dorso, le braccia e i glutei; anche le superfici volari degli avambracci, comprese le palme delle mani, e le gambe apparivano particolarmente interessate, con lesioni cutanee “a carta geografica”, dovute alla confluenza di più vescicole fra loro e denotanti l’estrema gravità della malattia. L’aspetto macroscopico, la distribuzione regionale e lo sviluppo uniforme dell’eruzione depongono nettamente per un caso di vaiolo.
Esame radiologico
Materiali e metodi: Le radiografie sono state effettuate con un apparecchio radiologico portatile Gilardoni, modello X GIL S.G., le cui caratteristiche tecniche sono: alimentazione monofase, tensione di rete 220 V, frequenza 50 Mz, generatore di raggi X “XGIL”, tensione al tubo di 70 KV, corrente al tubo di 3,5 mA, circuito autoraddrizzante al tubo, fuoco di 1X1 mm, filtrazione totale di 2 mm Al. Le radiografie sono state eseguite su pellicola Du Pont, CRONEX 4 Blue Base, formato 30X40 cm, e su pelicola 3M, tipo R 2, formato 30X24 cm, con distanza tubopellicola di 90 cm. Le lastre sono state sviluppate manualmente sul posto, con sviluppo a mano Agfa, alla temperatura di 37°C e con fissaggio Agfa; per il lavaggio, in acqua corrente, è stata utilizzata normale acqua potabile (10).
Risultati: L’esame radiologico rivelò un individuo con età ossearadiologica di circa 23 anni, con craniotomia occipitale postmortale e presenza di materiale fioccoso radiopaco nella cavità cranica; analogo materiale era presente nel torace e nella cavità addominale; gli arti presentavano numerose strie orizzontali metafisarie distrofiche di accrescimento, tipo Looser o Harris, denotanti altrettanti arresti di crescita; le metafisi distali delle ossa degli arti inferiori, di aspetto corto e tozzo, appaiono slargate ed irregolari, verosimilmente per fenomeni di rachitismo. Si notava anche tendenza al varismo delle articolazioni coxofemorali, con curvatura non accentuata. Le parti molli delle cosce e delle gambe apparivano infarcite di piccole immagini irregolarmente nodulari, talora confluenti talora libere, di densità quasi metallica; analoghe immagini si ritrovavano in corrispondenza delle parti molli del braccio e dell’avambraccio, soprattutto nell’arto superiore di sinistra; qualche immagine simile era rilevabile lungo il mento, lungo la faccia e all’altezza della spina nasale. Si trattava evidentemente dell’espressione radiologica dell’eruzione cutanea.
Istologia, istochimica ed immunoistochimica
Materiali e metodi: per l’esame istologico al microscopio ottico, alcuni campioni di cute con vescicole e pustole, reidratati con il metodo Sandison (11) e inclusi in paraffina secondo le procedure standard e/o in resina metacrilato, sono stati colorati con ematossilinaeosina e con il Van Gieson. E’ seguita una selezione delle sezioni migliori a cui è stata applicata la tecnica immunoistochimica dell’immunofluorescenza indiretta. A tale scopo, sezioni di 5 μm in paraffina, raccolte in un bagno d’acqua distillata contenente gelatina, sono state messe per una notte a 370C; dopo sparaffinamento in xilolo e deidratazione in alcool assoluto le sezioni di tessuto sono state incubate con anticorpo di coniglio antivirus del vaiolo umano (12), diluito 1:50 in PBS/BSA allo 0,l%, per 30’ in camera buia a 37° C; dopo tre ripetuti lavaggi in tampone fosfato salino (PBS) a pH 7,2 per 5’, le sezioni venivano incubate con anticorpo anticoniglio fluorescinato (BIOSYS), diluito 1:1, per 30’ in camera buia a 370C; seguivano 3 lavaggi in tampone fosfato salino (PBS) a pH 7,2 per 5’ e un bagno di acqua distillata; il montaggio dei vetrini veniva effettuato con una soluzione di glicerina tamponata 1:1, dopo il lutaggio, e prima dell’osservazione al microscopio ottico, i vetrini venivano conservati al buio a 40C. I controlli negativi consistevano nell’omettere nella procedura l’anticorpo primario, nell’impiegare l’anticorpo primario su un campione di cute di mummia di S. Domenico e di mummia precolombiana (FI 3 del Museo Nazionale di Antropologia di Firenze) a negatività nota, nell’impiego di un antisiero secondario marcato diretto contro le immunoglobuline di una specie animale diversa (antigoat) rispetto a quella utilizzata per la sintesi del primario, nel trattamento del campione con anticorpo specifico e un secondario non marcato. I vetrini così preparati sono stati esaminati al microscopio a fluorescenza.
Risultati: l’esame istologico, a piccolo ingrandimento, rivelò la presenza di immagini lacunari, corrispondenti alle vescicole, che interessavano il derma medio e profondo. Questo aspetto, in particolare il coinvolgimento del derma, appariva molto suggestivo per un caso di vaiolo. L’immunoistochimica evidenziava una fluorescenza puntiforme intratissutale rivelando così, anche in assenza di un controllo positivo impossibile da reperire, una netta positività per il vaiolo.
Microscopia elettronica
Materiali e metodi: dopo aver disciolto il contenuto cristallino di alcune vescicole in una piccola provetta di acqua distillata, il supernatante, raccolto e mescolato ad una uguale quantità di una soluzione di acido fosfotungstico al 3% con pH 6,4, secondo la tecnica della colorazione negativa con tetrossido di osmio (13), è stato osservato con un microscopio elettronico Siemens Elmiskop 1A. Inoltre minuti frammenti (1 mm), prelevati dalla regione basale delle pustole e reidratati con il metodo di Sandison (11), sono stati fissati con glutaraldeide tamponata al 2,5%, postfissati in OsO4 e preparati per la microscopia elettronica; in alcuni casi le sezioni ultrafini, incluse in epon, sono state trattate per 30’ con soluzione satura di metaperiodato di sodio, come descritto da Bendayan e coll. (14), e incubate per 12 ore a 4° C con anticorpo di coniglio antivirus del vaiolo umano (12) diluito 1:30; dopo ripetuti lavaggi le sezioni venivano esposte al complesso proteina Aoro colloidale per un’ora a temperatura ambiente; le tecniche di preparazione di sospensioni monodisperse di oro colloidale e l’assorbimento della proteina A alle particelle di oro sono già state ampiamente descritte (15, 16); i controlli negativi consistevano nella esposizione al solo complesso proteina Aoro colloidale e nella marcatura immunologica, con lo stesso anticorpo e la proteina Aoro, di campioni di cute di un’altra mummia di S. Domenico e di una mummia precolombiana (FI 3 del Museo Nazionale di Antropologia di Firenze), sicuramente indenni; le sezioni sono state quindi lavate, colorate con acetato di uranile e osservate con lo stesso microscopio elettronico Siemens Elmiskop lA.
Risultati: l’osservazione ultrastrutturale del contenuto delle pustole, con la tecnica della colorazione negativa, evidenziò la presenza di particelle irregolarmente tetraedriche, di 200300 nm di lato, molto simili per morfologia e dimensioni a quelle dei virus del vaiolo.
L’esame delle sezioni ultrafini confermò l’eccezionale stato di conservazione dei tessuti; comparvero alcune cellule, ben riconoscibili anche se in parte deteriorate, con inclusi di materiale lipidico; il tessuto muscolare conservava quasi intatta la caratteristiche struttura (sarcomeri con linee Z), anche a forte ingrandimento; si rilevò inoltre la presenza, in mezzo ad abbondanti fibre collagene ed elastiche, a nuclei picnotici e a residui di membrane cellulari con rari desmosomi, di batteri e di numerose strutture ovalari elettrondense della grandezza di 250 x 200 nm; si trattava di particelle similvirali costituite da una regione centrale più densa (core) circondata da una zona a più bassa densità; le dimensioni e la morfologia delle particelle sono risultate compatibili con quelle di alcuni grossi virus, quali appunto i poxvirus. Uno studio ultrastrutturale successivo, effettuato in un laboratorio specializzato alcuni anni dopo, confermò questi primi risultati (17). Dopo l’immunoreazione con anticorpi antivaiolo e successiva marcatura con proteina Aoro, alcune di queste particelle apparvero completamente ricoperte dal complesso proteina Aoro, altre lo erano parzialmente, mentre solo pochissimi granuli risultano sparsi nel tessuto. Ciò dimostrò la presenza, sulla superficie delle particelle, di anticorpi antivaiolo in forte concentrazione, rendendo sicura l’identificazione del virus e confermando i dati immunoistochimici ed ultrastrutturali.
DNA antico
Materiali e metodi: l’estrazione del DNA dalle vescicole stata effettuata secondo le procedure standard (18). Circa 30 mg di tessuto secco è stato minutamente tagliato e sospeso in 400 ml di Tris (pH 8,0) 10 mM, 2 mM EDTA e 10 mM NaCl. Sono stati poi aggiunti 100 ml della medesima soluzione contenente 5% SDS, 30 mg/ml DTT e 2mg/ml di proteinasi K. I campioni sono stati incubati a 37° C, agitandoli leggermente, per 4 ore. Sono stati poi aggiunti 100 ml di tampone contenente SDS, DTT e proteinasi K e la incubazione è stata protratta per tutta la notte. Il materiale insolubile è stato rimosso tramite centrifugazione e il supernatante, di colore bruno, è stato estratto con fenolo e con cloroformio/alcool isoamilico (4:1) prima di essere precipitato con etanolo. I precipitati sono stati disciolti in 50 ml di acqua distillata. L’estratto di vescicole è stato quindi colorato con una soluzione di bromuro di etidio (5mg/ml) in tampone fosfato salino (PBS) (19) e osservato alla luce ultravioletta.
Risultati: La colorazione dell’estratto di vescicole con bromurio d’etidio dette risultati positivi; infatti si sviluppò una netta fluorescenza alla luce ultravioletta, dimostrando la presenza di DNA.
Conclusioni
Già agli inizi del nostro secolo Ruffer (20) aveva evidenziato, in una mummia egizia di età dinastica, alcuni quadri istologici suggestivi di vaiolo. Più recentemente sono state scoperte, in una mummia peruviana datata al 950 d.C., particelle simili a myxovirus (21), mentre tipici papillomavirus sono stati evidenziatj nel corpo congelato di un bambino Inca sacrificato e sepolto sulle Ande a 5.400 m di quota fra il 1480 e il 1540 d.C. (22). Alcune particelle simili al virus del vaiolo sono state poi trovate nella cute del faraone Ramsete V (11451141 a.C.), deceduto probabilmente per vaiolo, senza poter ottenere però una diagnosi sicura (23).
E’ la prima volta però che, come nel caso in studio, un virus viene identificato in tessuti umani antichi con tecniche immunologiche. E’ ragionevole ritenere che il metodo possa essere applicato anche ad altri virus, aprendo una nuova strada alle ricerche di paleovirologia. La dimostrazione dell’avvenuta reazione antigene (le particelle virali) anticorpo (il siero antivirus del vaiolo umano) ha permesso l’identificazione di un ceppo di virus del vaiolo vecchio di alcuni secoli (24, 25, 26, 27).
Stupisce l’eccellente, quasi straordinaria, conservazione della struttura antigenica di alcune particelle virali a distanza di un così lungo periodo di tempo. E’ possibile che il fenomeno sia dovuto alle particolari condizioni microclimatiche, di estrema secchezza, della sacrestia di S. Domenico Maggiore e, soprattutto, all’azione di alcune sostanze (acquavite, lisciva), largamente usate a Napoli per l’imbalsamazione (28), che avrebbero prodotto una vera e propria «fissazione istologica» dei tessuti.
Al tempo della scoperta era in corso un dibattito, con notevo
le differenza di opinioni, sulla capacità di sopravvivenza del virus del vaiolo sulle sue vittime dopo la morte (29, 30, 31, 32) e quindi sul rischio potenziale per gli archeologi che fossero entrati in contatto con questi resti. Però un tentativo di coltivazione del virus, resosi necessario proprio per la sua ottima conservazione ed effettuato presso i Centers for Infectious Diseases di Atlanta in Georgia, dette esito completamente negativo (Figura 20). A distanza di quasi 20 anni possiamo affermare che questo timore non aveva ragione di essere; infatti è stato appurato che il DNA antico è sempre estremamente frammentato, nella migliore delle ipotesi in frammenti di 100150 paia di basi; pertanto il virus, anche se morfologicamente ben conservato, non poteva possedere più alcuna attività biologica.
Resta il problema dell’identificazione del DNA estratto dalle vescicole cutanee, da identificarsi almeno in parte come DNA virale.
Lo studio molecolare, attualmente in corso presso il Laboratorio di ArcheAntropologia Molecolare dell’Università di Camerino diretto dal prof. Franco Rollo, potrà non solo confermare ulteriormente la diagnosi di vaiolo, da noi già posta su base morfologica ed immunoistochimica, ma potrebbe anche aprire la strada al sequenziamento di alcuni geni virali, da mettere a confronto con quelli, omologhi, del virus del vaiolo attuale.
L’obiettivo alquanto ambizioso, ma estremamente importante e non privo di risvolti pratici, è quello di cogliere eventuali mutazioni nella struttura genica del virus avvenute nel corso di questi ultimi secoli e di delinearne il trend evolutivo.
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