Roberta Antonelli
Istituto Storico Lucchese
Sezione di Storia della Tanatologia

Storia
Nel 1232 il canonico lucchese Benedetto  donò a Graziano detto Barbavecchia, suo fratello, e al di lui figlio due campi:  uno, con una casa solariata, in località Cerbaiola e il secondo, con alberi e viti, che si estendeva ben oltre la nuova casa dei lebbrosi in Coda di Prato, fuori delle mura lucchesi[1]. Questa, per quanto ci risulta, è la prima notizia relativa alla esistenza di questo luogo di rifugio riservato ai malati di lebbra, secondo, in ordine cronologico, a quello di Flesso, oggi Montuolo, di cui si sa che fu distrutto da una piena del Serchio nel 1158[2] e a quello di Ruota di cui se ne conosce l’esistenza fin dal  1187[3]. Altri lebbrosari o “malattie” furono istituiti nel tredicesimo e quattordicesimo secolo[4].
Nel 1272 Gualtrotto Stiatta devolvette alla “casa degli ammalati” di S. Lazzaro la rendita di uno staio di grano derivante da un campo in Santa Maria del Giudice[5], mentre nel 1275 tale Gualando tintore vendette, per 12 scudi, le sue ragioni su un pezzo di terra in Sant’Angelo in Campo dal quale gli derivano 11 staia di grano, 10 di fave e 10 di miglio[6].
La “mansione” poté contare  sulle rendite che gli derivarono da donazioni e lasciti testamentari che andarono aumentando tanto da raggiungere un numero considerevole di beni che venivano concessi a livello in cambio di rendite annuali e anche di denaro che si sommavano al versamento effettuato dai malati che, entrando nello spedale, dovevano pagare la “dote”. Quando erano troppo poveri per pagare ricevevano egualmente, come si legge in diversi documenti, vino, olio e altri generi dal rettore stesso al quale rilasciavano una ricevuta di quanto era stato loro concesso[7].
Per avere un’idea del numero di coloro che consegnavano prodotti a San Lazzaro ricordiamo che nel 1506 i renditori erano 45 per un’entrata di 380 staia di grano[8]; nel 1507 l’entrata fu di poco superiore pari a 386 staia di grano[9]; ci fu un leggero calo nel  1510 con l’ingresso di 380 staia di grano provenienti da 38 renditori[10]..
Quindi l’economia della struttura si basava sulle rendite provenienti dai beni avuti da persone che testavano in favore dell’ospedale ridati poi ad altre che le lavoravano migliorandole e anche costruendovi case. La concessione dei beni è registrata negli atti notarili conservati  nell’Archivio di Stato in Lucca e di cui riportiamo qualche esempio: nel 1316 Nicolao chiamato Coluccio q. Parigii rettore dello spedale di San Lazaro cedette a Gardo q. Iacobo di Nozzano due pezzi di terra, uniti da una semitola, con alberi, viti, fichi e altri frutti affinché la lavorasse e la migliorasse per il canone annuo di staia 90 di biade e cioè grano e miglio[11]. La durata del contratto poteva durare un anno soltanto o 29 anni che era il periodo massimo di concessione che poi poteva essere rinnovata[12].
Le terre concesse  erano dislocate in tutto il distretto lucchese, dalla Versilia alla Val di Nievole, come si rileva dai registri dei renditori, dai terrilogi e dai martilogi conservati nel detto Archivio di Stato.
C’erano anche le persone che lasciavano allo spedale beni di uso quotidiano come Simona, figlia di Manfredo di Genova e moglie di Guglielmo di Piacenza che , ancora vivente, decise di donare ogni suo bene a San Lazzaro; nell’elenco compaiono i panni, le lenzuola, la madia, lo staccio, una cassa, dei contenitori per i liquidi, una padella, un mortaio e le altre suppellettili di cui era solita fare uso[13].
Della struttura del complesso non abbiamo trovato descrizioni fino al secolo XVI durante il quale furono compilati diversi  terrilogi, però abbiamo notizie di interventi precedenti.
Nel 1380 Martino q. Chelis, “magister legnaminis et murator” stipulò una convenzione con il presbitero Pellegrino Alexii, allora rettore dello spedale, per edificare metà di una casa adiacente all’altra metà già fatta edificare dallo stesso rettore nel chiostro di San Lazzaro. Martino doveva costruire sui muri che già esistevano dopo averli puliti dalle “spine e dalle male radici” per una altezza pari alla metà già esistente, il tetto coperto con tegole. Martino si impegnò a procurare le maestranze, i manovali, gli operai, le funi e i canapi, i ferramenti e ogni altro strumento necessario, mentre il rettore avrebbe dovuto procurare la rena, la calce, le tegole i laterizi, i chiodi e tutto il legname necessario e cioè, i travi, le tevole e i legni per i ponti in modo che Martino potesse consegnare l’opera nei termini fissati dal contratto nelle calende di aprile[14].
A questo primo ampliamento seguì una ristrutturazione avvenuta nel 1422 per volontà del suo rettore Domenico di Giovanni, come attesta la lapide posta su un pilastro dell’arco ancora esistente.
Nonostante lo spedale fosse adibito a ricovero per i lebbrosi non impedì l’assalto dei fiorentini che erano in guerra con Paolo Guinigi Al termine delle lotte le strutture dovettero essere risistemate a causa dei gravi danni subiti[15]. Nel 1433, infatti, il rettore  Johannes q. Bartolomeo Lottorini, canonico lucano, si rivolse al vescovo di Lucca esponendo che, come tutti sapevano, per la guerra, l’oppressione e le offese causate dalla invasione dei fiorentini, lo spedale di San Lazzaro, con tutti gli edifici era stato bruciato e distrutto, creando un grande disagio nei poveri che avevano perduto l’unico rifugio che avevano.
Il rettore desiderava ricostruire per poter ricevere nuovamente quelle povere persone, ma  siccome non aveva il denaro necessario chiese al vescovo di poter vendere 255 coltri di terra campia, che prima della devastazione dei nemici fiorentini, era stata ricca di alberi e di viti, con il forno e altre comodità che, tranne il pozzo, erano state distrutte. La proprietà, situata in contrada S. Ponziano, aveva già un compratore, il magistro Antonio q. Turignani di Sirico, medico lucchese.
Il vescovo riconobbe la necessità di ristrutturare lo spedale e quindi autorizzò la vendita della terra che fu effettuata per 45 fiorini d’oro che servirono per rifare i tetti e i muri, per acquistare il legname, la calce, i chiodi e per pagare le maestranze[16].
Nel 1548 il complesso “che si domanda lo spidale” era costituito da una corte con la chiesa di San Lazzaro e le case per i poveri con cortile murato e una casa separata per il rettore e altri con più stanze, con pozzo e orto. Nella stessa corte c’erano due case appartenenti a Quirico e a Caterina Arrighini[17].
Sei anni più tardi fu redatto un Martilogio che mostra una estensione maggiore che presumiamo sia dovuta  all’attenzione dell’agrimensore più che ad un ampliamento effettuato in quel periodo visto che nel 1550 esso fu unito allo Spedale di San Luca. Comunque l’agrimensore annotò un terreno, parte campo e parte orto e parte prato, sopra il quale si trova la chiesa di San Lazzaro con più muraglie appresso e molte stanze che costituiscono lo spedale per uso dei poveri di detto luogo e con alcune altre case che solitamente vengono allogate “ovvero tenersi per i cercatori di detto spedale”, con cortile sive piazza, con pozzi, forni e altre pertinenze “il quale giace come nel soprascritto disegno dimostra”. Il tutto confinava con le due case che comparivano nel precedente terrilogio[18]. Oltre alle dette strutture c’era anche il castro, ambiente riservato ai maiali o comunque ad altri animali domestici,  come è indicato da un documento del 1451 nel quale è citata una casa murata e solariata confinante con il castro e il muro dello spedale di San Lazzaro[19]. Inoltre lo spedale aveva il chiostro come chiaramente si dice  in diversi documenti che ricordano le case all’interno del complesso: la casa da finire nel 1380 era “infra claustrum”[20]; la casa murata, solariata a un solaio con il tetto di tegole, con corte e orto che il retore Iacobo quondam Johannis del Chaccia locò a Nannino di Domenico di Prato si trovava nel chiostro[21]; ancora nel 1554 la casa murata e coperta con tegole tenuta da Quirico Arrighini era situata nella corte e confinante da levante e da settentrione con il chiostro dello spedale[22]. Nella stessa corte anche Caterina e Biagio Arrighini tenevano una casa la prima delle quali aveva una scala esterna di legno[23].
Altre notizie sulla struttura edilizia del complesso le possiamo ricavare dalle visite pastorali che il vescovo compiva periodicamente alla chiesa  e allo spedale. Così, da quella effettuata il 14 gennaio del 1630  si conosce che  c’era una scala esterna che immetteva nella stanza grande al piano superiore che, in quel momento era piena di paglia che doveva essere tolta in modo che il rettore ne potesse fare uso; la chiesa, verso ponente aveva delle graticole, ma  dovevano essere messe due “chiudende” e le “vetriere” alle finestre che ne erano sprovviste; sotto l’altare era situato un reliquiario che era necessario “foderare” con tavole e con un drappo[24].
Nella visita del 1632 il vescovo suggerì di fare un confessionale e un altarino presso l’altare maggiore con “li ornamenti”, oltre altri piccoli interventi sugli arredi della chiesa e della sacrestia[25].
Lo spedale era stato edificato vicino al ponte denominato Leo Buzi, dal nome di chi, probabilmente, lo aveva fatto costruire[26] e di cui si ha notizia dal 1071 quando Rustico q. Bonii della canonica di San Martino offrì due pezzi di terra presso il ponte di Leo Buzi[27].
Tutta la zona era interessata dalla processione che si svolgeva in onore della Madonna del Soccorso, la cui festa fu istituita a partire dal 1480, e che ci mostra come questo ponte esistesse ancora: il terzo giorno la processione usciva dalla città e “passando sopra il ponte che chiamavasi Pons Libuti” che è il ponte che dalla via Pisana immette nel prato di San Lazzaro, “detto Lebutii corrottamente invece di lebrosi” perché era unito alla chiesa di San Lazzaro, prima intitolata a Santa Maria, dove era lo spedale per i lebbrosi[28].

Organizzzione

A capo dello spedale c’era un rettore, in qualche carta è definito governatore[29],  a cui erano demandate tutte le responsabilità, tranne quelle relative alle liti e alle eventuali discussioni con le autorità o con i privati per le quali il rettore stesso nominava un procuratore[30] che, probabilmente, aveva il compito di tenere almeno una parte dell’amministrazione visto che nel 1452 questa figura è detta anche economo e governatore[31]. Comunque spettavano al rettore le decisioni importanti e per le quali doveva rendere conto soltanto al vescovo dinanzi al quale era chiamato a giustificare il suo operato in caso di qualche disordine.
Nel 1365, in una lettera che Maghinardo Orsucci con il figlio consegnò a Pantaleone Ruffini di Pistoia rettore dello spedale, il vescovo chiese spiegazioni intorno al suo comportamento nei confronti degli ammalati di San Lazzaro degli infetti. Il prelato redarguì il rettore ricordandogli che pur locando i beni e riscuotendo le rendite dello spedale,  con grande scandalo,  si era permesso non solo di non alimentare i malati che vi erano ricoverati, ma  di averli addirittura cacciati via contro ogni senso umanitario. Il vescovo ordinò al rettore che accogliesse i malati dando quanto spettava loro entro sei giorni[32].
All’interno operavano dei conversi che avevano diritto al vitto e al vestiario come si deduce dalla lite sorta nel 1330 fra loro, rappresentati da un procuratore, e il rettore difeso dal suo. Infatti il rettore non aveva provveduto al vestiario e agli alimenti a cui i conversi avevano diritto suscitando una reazione piuttosto veemente. Per evitare scandali i due procuratori fecero in modo che i conversi avessero ciò di cui avevano bisogno e, inoltre, stabilirono che il rettore, entro un anno, pagasse quei debiti con il comune di Lucca che, secondo lui, erano la causa del mancato sostentamento dei conversi[33].
Oltre queste figure c’era almeno un “cercatore de’ poveri” che si presume avesse il compito di andare in giro a fare la questua[34].
Il rettore accoglieva i malati dietro il pagamento di una dote e in cambio dava loro uno staio di grano, ma aveva facoltà di accettarli anche senza e, in questo caso, ne elargiva soltanto mezzo staio e un “animale grasso” per carnevale[35].
Ancora nel 1610, quando San Lazzaro era già unito a San Luca da più di mezzo secolo, si ritrova questa regola che quindi doveva essere una consuetudine visto che il luogo accoglieva anche i poveri. Comunque nella cancelleria dello spedale di San Luca, nel 1610 appunto, c’era una “tavola”  nella quale si leggeva che lo spedale di San Lazzaro e la chiesa erano stati uniti il 22 febbraio 1550 con l’obbligo della spedalità e con alcuni letti per “li poveri aggravati dal male di S. Lazzaro dovendosi da essi pagare per elemosina scudi 10 al detto spedale, essendo però sempre in arbitrio dei padri rettori di riceverli gratis”. E venticinque  anni dopo, il vescovo precisò che avrebbero dovuto avere la stessa elemosina ogni mese come avessero pagato anche tutti coloro che non avevano versato la quota[36].
Agli obblighi della struttura “sanitaria” si aggiungevano quelli più specificatamente riferiti alla chiesa  nella quale doveva essere celebrata una messa in ogni giorno festivo solennizzando maggiormente quella di San Lazzaro e Santa Maria Maddalena[37].
Anche dopo la sua annessione a S. Luca, quello che era stato il lebbrosario continuò ad accogliere i poveri e gli ammalati; nel 1583 la sua cura era esercitata dai frati di San Cerbone dell’ordine di S. Francesco con il salario di 30 staia di grano l’anno con l’obbligo di celebrare le funzioni religiose e di curare spiritualmente i poveri del detto spedale[38].
I malati
I malati di lebbra che non erano “ospedalizzati” non avevano scampo perché nessuno li voleva intorno e erano costretti a vagare suonando la campanella e chiedendo misericordia, dichiarando ad alta voce la loro condizione. Questa situazione si nota in un atto del 1319 che descrive il disagio dei lebbrosi cacciati a causa dei “tiranni lucchesi”. Il rettore Coluccio q. Parigi con il consenso e la volontà di Bianco Ansaldini e Bonaiunta Orlandi si impose perché i malati non subissero più quella umiliazione, chiedendo l’intervento del nobile Franceschino q. Benetti Honesti che nominarono loro patrocinatore e difensore in cambio di numerose rendite che pervenivano allo spedale da diverse località[39].
Per potersi assicurare un posto in San Lazzaro era necessario pagare una dote, come già abbiamo accennato: nel 1475 furono pagati “quatuor largos” per l’ingresso di “donna Johanna” infetta dal male di San Lazzaro[40]. Abbiamo anche visto che gli infermi avevano diritto a certi prodotti che il rettore consegnava loro sia che pagassero, sia che non potessero versare la quota prevista: Bartolomeo Michelis di Coreglia, incaricò il suo procuratore di versare nove ducati d’oro dei dieci previsti con la promessa che l’ultimo lo avrebbe dato entro un anno per poter entrare nello spedale “et consequendo emolumenta dicti hospitalis prout consuetum est”[41].
All’interno di San Lazzaro, i malati,  trovavano sicuramente un ambiente più umano, più tranquillo e più sicuro. Dormivano in un letto con materasso e lenzuola come dimostra il verbale steso in occasione della visita pastorale del 1575 nel quale si legge, fra l’altro, che il rettore  doveva fornire ogni letto di almeno quattro lenzuola e un materasso[42].
Ad accudire i lebbrosi c’erano due “massare”, una per i maschi e l’altra per le femmine che ricevevano uno  staio di grano più un altro mezzo in occasione del natale, del carnevale, della pasqua e della pentecoste[43].
Il nome e la condizione dei malati era registrata, almeno questo è quanto risulta nel 1542 e 1544. Nel 1542 il pievano Piero Colini, rettore dello spedale, annotò il nominativo e la provenienza dei seguenti malati, specificando il loro stato di salute:
Michele di Ansano – sta male.
Iacopo di Ansano – non sta molto male.
Giovanni Maria dal Castelletto – sta male.
Santi Frediani da Compito – sta male.
Domenico da Menabbio – sta non tanto male.
Giovanni da Castagnori (non è precisata la condizione).
Chatarina da Lammari – non ha molto male.
Sandra da Porcari – sta male.
Rosa da Controne – non ha molto male.
Pellegrina da Controne – sta male.
Maddalena da Petrognano – non ha molto male.
Chatarina di Frate Antofori è fanciulla.
Chiara da Charignano – non sta molto male.
Rosa dalla Fornace (non è precisata la condizione).
Il rettore scrisse che la servente per “li homini” era Margharita e quella per le donne Giovanna[44].
Due anni più tardi lo stesso rettore stese l’elenco  “di tutti gli infetti di lepra” che erano ricoverati e, oltre alla scomparsa di molti nomi, si nota un aggravamento quasi generale dei superstiti, ma nessun nuovo degente:
Michele di Ansano – morì quell’anno.
Iacopo di Ansano – non ha molto male.
Giovanni Maria dal Castelletto – sta male ed è cieco.
Santi di Giovanni Frediani da Compito – sta male.
Chatarina da Lammari – non sta molto male.
Sandra da Porcari – sta male.
Rosa da Controne – sta male.
Pellegrina  da Controne – sta male[45].
Non sappiamo con certezza dove venivano seppelliti i malati che morivano nel lazzaretto, ma sembra che per un certo periodo la loro tomba fosse sotto il pavimento dello spedale come parrebbe di capire dal verbale  dalla visita pastorale de 1575 nel quale è scritto che no “frangantur” il pavimento per seppellire i morti[46]. Probabilmente poi furono interrati, ma al momento non abbiamo notizie.
Nel 1745 lo spedale di San Lazzaro fu adibito a centro di accoglienza per i soldati spagnoli ammalati che, provenienti da San Pellegrino in Alpe, si sparsero per il territorio lucchese alla volta di Genova[47].

[1] A. S. L., Diplomatico dello Spedale di San Luca, 308, 7 settembre 1232; E. Coturri, La spedalizzazione dei lebbrosi a Lucca dal XIII al XV secolo, estratto dalla rivista “Castalia”, anno XV – n. 2 – maggio 1959; Idem, L’ospedale di San Luca ed il lebbrosario di S. Lazzaro di Pontetetto unitogli nel 1550, estratto da “Ospedali  d’Italia – Chirurgia”, vol. III, n. 1-2, luglio – agosto 1960; Idem, L’ospedale di S. Lazzaro “in Coda di Prato”, in Rivista di Archeologia Storia e Costume a cura dell’Istituto Storico Lucchese delle Seimiglia, anno VII, aprile – giugno 1979, pp. 13-20.
[2] P. Guidi – O. Parenti, Regesto del Capitolo di Lucca, in “Regesta chartarum Italiae”, I, Roma, 1910, n. 1172; E. Coturri, L’ospedale di S. Lazzaro cit., p. 13, nt. 1.
[3] S. Bongi, Inventario dell’Archivio di Stato in Lucca, IV, Lucca, 1888, nota a p. 210.
[4] E. Coturri, opere citate, passim.
[5] A. S. L., Spedale di San Luca, 141, c. 16v., 23 luglio 1272.
[6] A. S. L., Diplomatico dello Spedale di San Luca, 603 A e B, 25 ottobre 1275.
[7] A. S. L., Spedale di San Luca, 315, all’interno  “1574 Libretto di alcune poche rendite di livelli spettanti a’ poveri dell’Ospedale  di San Lazzaro” nel quale si legge “Si nota che dal rettore di detto spedale si dava a Poveri del detto spedale l’esazione di alcune rendite per il loro vitto, e perciò se ne faceva da’ da detti poveri la ricevuta come in questo”.
[8] A. S. L., Spedale di San Luca, 323, cc. 94v.-95r., a. 1506.
[9] Ibidem, cc. 100v-101r., a. 1507.
[10] Ibidem, c. 110v., a. 1510.
[11] A. S. L. Notarile, Notai prima parte, n. 65, c. 161, 6 agosto 1316.
[12] A. S. L. Notarile, Notai prima parte, n. 1633, c. 85, 20 maggio 1494; n. 144, c. 558/3, anno 1343 ca. La locazione poteva essere valida anche per due anni o per sei proprio perché non  esisteva una regola uguale per tutte le concessioni.
[13] A. A. L., Libri Antichi, n. 112, c. 53v., 18 giugno 1476.
[14] A. S. L., Notarile, Notai prima parte, n. 212, c. 8v., 26 gennaio 1380.
[15] E. Coturri, L’ospedale di San Lazzaro in “Coda di Prato” cit. p. 13 e p. 20.
[16] A. A. L., Libri Antichi, 53, cc. 29v.-30, 28 ottobre 1433.
[17] A. S. L., Spedale di San Luca, 324, n. 2, Martilogio nuovo, c. 11v., a. 1548.
[18] A. S. L., Spedale di San Luca, 325, c. 15r., a. 1554.
[19] A. S. L., Spedale di San Luca, 324, Martilogio vecchi, c. 69r., a. 1451.
[20] A. S. L., Notarile, Notai prima parte, n. 212 cit.
[21] A. S. L., Notarile,  Notai prima parte, n. 978, c. 168v., 8 luglio 1473.
[22] A. S. L., Spedale di San Luca, 325, c.16r., a. 1554.
[23] Ibidem, c. 18v. In pratica, oltre il compleso dello spedale e della chiesa c’erano altre tre case.
[24] A. S. L., Spedale di San Luca, 314, c. 276, 14 gennaio 1630.
[25] Ivi, 9 novembre, 20 nevembre 1632.
[26] G. Barsotti, Diporti Storici – Vaccoli, in Atti dell’Accademia Lucchese di Scienze Lettere ed Arti, I, Lucca, 1931, pp. 163-177, p. 164.
[27] P. Guidi – O. Parenti, Regesto cit., n. 380, a. 1071.
[28] D. Barsocchini, Diario sacro delle chiese di Lucca di Monsignor Giovan Domenico Mansi, Lucca, 1836, p. 133. Aggiunge che la lebbra era una malattia molto comune e più dopo che “all’uso generale della lana fu sostituita la lingeria”. L’intitolazione a Santa Maria compare anche nella lapide del 1422.
[29] A. S. L., Notarile, Notai prima parte, 193, II, “Peregrinus Alexii, canonico lucchese rettore e governatore dello spedale di San Lazzaro”, c. 63, 9 aprile 1391.
[30] A. S. L., Notarile, Notai prima parte, n. 108, c. 46, 5 settembre 1330; n. 140, c. 493, 22 agosto 1367 tanto per fare un esempio.
[31] A. S. L., Notarile, Notai prima parte, n. 555, cc. 17v-18, 8 marzo 1452.
[32] A. A. L., Libri Antichi, 24, c. 56, 6 settembre e 21 ottobre 1365.
[33] A. S. L., Notarile, Notai prima parte, n. 108, c. 46, 5 settembre 1330.