Gino Fornaciari
Università di Pisa – Dipartimento di Oncologia, dei Trapianti e delle Nuove Tecnologie in Medicina
Divisione di Paleopatologia
Come dice il nome, la paleopatologia è la scienza che studia le malattie di un passato più o meno remoto attraverso l’esame diretto dei resti umani antichi, scheletrici o mummificati. Solo in questi ultimi anni la paleopatologia ha assunto la configurazione di disciplina autonoma, basata sui metodi dell’anatomia patologica, con apporti notevoli dell’antropologia e dell’archeologia. Questo tipo di approccio la differenzia nettamente dalla storia della medicina, che studia invece l’evoluzione del pensiero medico basandosi esclusivamente su fonti storico-letterarie. Naturalmente la paleopatologia si avvale anche dei dati forniti dalla storia della medicina, che costituiscono un aiuto prezioso per l’interpretazione dei quadri patologici di età storica. L’importanza della paleopatologia deriva perciò dal fatto che essa, o meglio i reperti che giungono all’osservazione dei paleopatologi, costituiscono l’unico punto di contatto concreto fra la medicina attuale, con le sue moderne tecnologie biomediche, e le malattie del passato.
Difficoltà legate ai reperti: molti scheletri, meglio le mummie.
Lo studio della paleopatologia riveste un duplice interesse: antropologico e medico. Antropologico perché la "patocenosi" (Grmek), cioè l’insieme delle malattie che caratterizza qualsiasi società umana dalla più semplice alla più complessa, è espressione dell’interazione fra l’uomo e l’ambiente, naturale e artificiale, in cui ogni società si trova immersa; perciò lo studio della patocenosi può fornire importanti elementi per la comprensione della società stessa. La paleopatologia riveste certamente un notevole interesse nel campo della medicina, perché può determinare con sicurezza l’epoca d’insorgenza e le modalità di diffusione ed evoluzione di alcune importanti malattie, come quelle infettive, l’arteriosclerosi* o il cancro. Certo, in questo importante – e diremmo generoso – tentativo, la paleopatologia incontra grandi difficoltà, talora insormontabili. I reperti paleopatologici sono rari – quanto più ci addentriamo nel passato – e, quel che è peggio, talvolta di non facile diagnosi. Nonostante questi limiti, la stessa paleopatologia scheletrica (il settore attualmente più indagato grazie alla relativa abbondanza dei materiali di studio disponibili) può fornire informazioni preziose sulle malattie del passato.
Gli studi più completi possono essere però effettuati solo sui resti umani rinvenuti nelle migliori condizioni di conservazione, cioè sulle mummie. Per mummia si intende qualsiasi corpo umano conservatosi per i motivi più diversi, come congelamento, conservazione in torba o disidratazione, e non necessariamente un corpo imbalsamato, cioè trattato artificialmente a fini conservativi com’è il caso delle classiche mummie egizie. Negli ultimi anni i metodi di studio delle mummie si sono perfezionati. Si è infatti scoperto che, dopo reidratazione, cioè dopo reintroduzione di acqua in laboratorio, campioni di organi antichi possono essere analizzati con le normali tecniche istologiche: le osservazioni al microscopio ottico ed elettronico dei tessuti antichi hanno dimostrato che molto spesso le cellule di questi ultimi risultano in uno stato di conservazione che non differisce da quello dei campioni “freschi”. Per cause climatiche i corpi mummificati sono relativamente numerosi nell’Italia centromeridionale. Si tratta per lo più di deposizioni di età rinascimentale o moderna, ma non mancano mummie medievali, che costituiscono un materiale paleopatologico prezioso, ancora quasi tutto da studiare. La numerosità per campione varia da alcune decine di individui a diverse migliaia, come nelle celebri catacombe dei Cappuccini a Palermo, databili fra XVI e XIX secolo.
Una disciplina recente e il faraone morto di vaiolo.
La Divisione di paleopatologia dell’Università di Pisa si è specializzata da tempo nello studio di questo tipo di materiali, ottenendo risultati di grande rilievo scientifico – soprattutto nel campo delle malattie infettive e in quello dei tumori – che l’hanno inserita fra i più importanti gruppi di ricerca a livello internazionale.
Per quanto riguarda le malattie infettive, i primi tentativi d’identificazione di microrganismi patogeni (virus e batteri) in tessuti antichi, effettuati con metodo e rigore scientifico, risalgono agli anni Settanta, a opera di un gruppo di ricercatori dell’Università della Virginia e del Museo peruviano di Ica, su mummie precolombiane del Perù e del Cile, nelle quali furono, fra l’altro, sospettate lesioni da tubercolosi polmonare e renale, mentre fu fatta diagnosi sicura di infezione da Bartonella bacilliformis, o verruca peruviana, e da Paracoccidioides brasilensis, una micosi* sudamericana generalizzata. Successivamente, nei primi anni Ottanta, furono evidenziate particelle simili a poxvirus, il virus del vaiolo, nella cute del faraone Ramsete V, che quindi sarebbe morto per questa terribile malattia, e di alcuni inumati della prima metà del XIX secolo in una cripta di Londra, recanti anch’essi una suggestiva eruzione cutanea. Un tipico Papillomavirus, o virus delle verruche umane, fu inoltre identificato nella lesione cutanea di un bambino inca deceduto nel periodo immediatamente precedente la conquista spagnola.
Vaiolo, sifilide ed epatite nelle mummie aragonesi.
Negli stessi anni Ottanta, la Sezione di paleopatologia dell’Università di Pisa iniziò lo studio sistematico delle mummie conservate in Italia, procedendo alla loro schedatura e al relativo esame autoptico o endoscopico. Tra le serie di mummie più numerose e importanti studiate in quel periodo spiccano quelle rinascimentali della basilica di S. Domenico Maggiore a Napoli, comprendenti trenta deposizioni di sovrani e principi della dinastia Aragonese di Napoli (XV-XVI secolo), e quelle della chiesa di S. Maria della Grazia in Comiso (Ragusa), con ben cinquanta deposizioni, in prevalenza di età moderna (XVIII secolo).
Gli studi di paleomicrobiologia si indirizzarono in particolare all’identificazione di antichi agenti patogeni, come virus, batteri e protozoi. Ad esempio, dopo la diagnosi macroscopica (senza l’aiuto di strumenti ottici – ndr) e istologica di vaiolo in una mummia infantile della basilica di S. Domenico Maggiore a Napoli (XVI secolo), fu effettuato un esame di campioni di pustole cutanee, dove si identificarono particelle simil-virali compatibili con i poxvirus del vaiolo; il trattamento degli stessi campioni con anticorpi specifici anti-virus del vaiolo umano provocò una caratteristica reazione antigene-anticorpo*, confermando la diagnosi e dimostrando una straordinaria conservazione delle strutture virali. Su un’altra mummia, quella di Maria d’Aragona, una nobildonna napoletana deceduta nel 1568 in piena “epidemia” sifilitica, fu riscontrata un’ulcera cutanea (debitamente fasciata): alcune sezioni di questo tessuto ulceroso trattate con anticorpi specifici mostrarono un gran numero di filamenti con i caratteri delle spirochete cui fece seguito, al microscopio elettronico, la definitiva identificazione come Treponema pallidum, l’agente della sifilide venerea. Inoltre, con uno studio effettuato sul DNA estratto dalla stessa ulcera cutanea di Maria d’Aragona, fu verificata la possibilità di diagnosticare nelle mummie, a livello molecolare, un’infezione virale: l’analisi della sequenza di alcuni frammenti di DNA permise infatti di individuare un breve tratto la cui sequenza risultò complementare a quella del virus dell’epatite E. Il che stava anche a significare che l’epatite E sarebbe stata presente nella popolazione mediterranea già in epoca rinascimentale.
Le stesse tecniche furono applicate ai tessuti di una mummia precolombiana la cui autopsia aveva evidenziato una sindrome megaviscerale, cioè la presenza di un’enorme ingrossamento del cuore e del colon, ricorrente nella malattia di Chagas, una grave infezione dei gangli nervosi viscerali causata dal protozoo parassita Trypanosoma cruzi. Campioni di miocardio e di esofago della mummia, dopo essere stati trattati con anticorpi specifici anti-Trypanosoma cruzi, rivelarono al microscopio elettronico la presenza di amastigoti intratissutali, cioè dei tipici parassiti incistati nei tessuti. Il campione scientifico così ottenuto è stato poi utilizzato con successo nel 1998 come controllo positivo antico, l’unico allora noto, dal Laboratorio di paleopatologia dell’Università del Minnesota per ricerche molecolari sulla diffusione della malattia di Chagas nell’America precolombiana, dando inizio a un importante progetto di collaborazione Italia-USA. Questo del Minnesota era lo stesso gruppo di ricercatori che nel 1994 era riuscito ad amplificare, cioè a copiare e a riprodurre, DNA specifico di Mycobacterium tuberculosis, il bacillo della tubercolosi, dalla lesione polmonare in una mummia peruviana anteriore al XIV secolo: l’importante scoperta aveva dimostrato la presenza sicura di tubercolosi umana nell’America precolombiana e aperto nuove strade alle ricerche di paleomicrobiologia.
Re Ferrante mangiava troppa carne rossa.
Per quanto riguarda i tumori, alla fine degli anni Ottanta il numero totale di neoplasie dei tessuti molli ben documentato in corpi umani antichi era solo di circa dieci casi. Le ricerche ricevettero nuovo impulso dalla scoperta, sempre a opera dei paleopatologi pisani, di ulteriori neoplasie antiche fra cui spicca, come caso di particolare rilievo, il tumore maligno del re di Napoli Ferrante I d’Aragona (1424?-1494) che riportiamo come esempio paradigmatico di studio paleo-oncologico. All’inizio degli anni Novanta l’autopsia della mummia del sovrano aragonese aveva rivelato la presenza di un adenocarcinoma mucinoso (tumore dell’intestino con riproduzione di strutture ghiandolari atipiche). L’ottima conservazione di questo tumore maligno, dovuta all’imbalsamazione cui la salma era stata sottoposta, aveva addirittura reso possibile lo studio al microscopio ottico ed elettronico della struttura delle cellule neoplastiche. Successivamente alcuni campioni dell’adenocarcinoma di re Ferrante furono sottoposti a un procedimento di estrazione degli acidi nucleici delle cellule tumorali e, nonostante che il DNA risultasse molto frammentato, fu possibile amplificarne dei brevi tratti. Si evidenziò così una tipica mutazione puntiforme (frequente nei carcinomi colorettali che si riscontrano oggi), indotta da agenti ambientali.
Recenti studi hanno richiamato l’attenzione sull’importanza, come agenti mutageni, dei composti nitrosi endogeni (che si originano all’interno del corpo – ndr): è stato dimostrato che l’eccesso alimentare di carni rosse, quali manzo, agnello e maiale, provoca un aumento significativo dei composti nitrosi nelle feci, fino a tre volte la norma (i livelli riscontrati ad esempio negli attuali fumatori di sigaretta). Dal canto loro le indagini sulle abitudini alimentari delle corti rinascimentali italiane, come quella aragonese di Napoli, hanno evidenziato proprio un elevatissimo consumo di carni rosse. In conclusione, l’"ambiente” alimentare della corte napoletana del XV secolo giustifica ampiamente, con la sua abbondanza di mutageni naturali endogeni, la mutazione del gene alla base del tumore che uccise il sovrano aragonese oltre cinque secoli orsono. La scoperta dimostra che è possibile mettere in evidenza sequenze di oncogeni* nei tumori antichi e apre nuove strade, inimmaginabili solo pochi anni fa, alla diagnostica paleopatologica delle neoplasie.
Quattro secoli fa una donna morta di parto.
Ultimamente sono state applicate allo studio delle mummie alcune moderne tecniche d’immagine. La radiografia digitale, la TAC e l’endoscopia virtuale hanno reso possibile l’esame dei corpi mummificati anche senza autopsia (procedura diagnostica necessariamente distruttiva e quindi lesiva dell’integrità dei preziosi reperti). Nel laboratorio di paleopatologia dell’Università di Pisa è stato effettuato il primo prelievo mirato di campioni di organi interni di mummia tramite laparoscopia, una tecnica chirurgica minimamente invasiva messa a punto all’inizio degli anni Novanta. La mummia naturale di una giovane donna deceduta alla fine del XVI secolo, ritrovata nella basilica di S. Francesco ad Arezzo, presentava un’enorme tumefazione addominale. La TAC e l’endoscopia virtuale, effettuate presso la sezione di Radiologia diagnostica, avevano evidenziato la presenza di una voluminosa massa addominale di incerta natura. Non essendo possibile un classico esame autoptico, in quanto il corpo appariva ancora rivestito con un prezioso costume rinascimentale, la mummia fu sottoposta a laparoscopia: l’esame istologico dei campioni prelevati dimostrò trattarsi di tessuto muscolare e fibroso tipico della parete di un utero post-gravidico e permise di formulare, a distanza di oltre quattro secoli, una diagnosi definitiva di morte puerperale, cioè di decesso della donna in conseguenza del parto.
I pochi esempi che abbiamo portato, tutti comunque di grande interesse medico, ci forniscono un’idea dell’importanza delle indagini paleopatologiche e delle potenzialità insite nell’applicazione delle moderne tecnologie biomediche ai reperti umani del passato.
Per saperne di più: M.G. Grmek, Le malattie all’alba della Civiltà occidentale, Il Mulino. 1987; F. Germanà e G. Fornaciari, Trapanazioni, craniotomie e traumi cranici nell’Italia antica, Giardini Editore, 1992; G. Fornaciari, Italian mummies, in A. Cockburn, E. Cockburn, Mummies, Disease & Ancient Cultures, Cambridge University Press, 1998.