Voce su Enciclopedia Garzantina

di Mariella Immacolato

L’ espressione “consenso informato”, in ambito medico, viene usata per indicare l’adesione consapevole del paziente all’atto medico proposto, che in questo modo diviene legittimo. Oggi, infatti, la prestazione sanitaria, anche se correttamente eseguita e con beneficio del paziente, risulta illecita, comportando responsabilità giuridica al medico che l’attui senza aver ottenuto un preventivo consenso informato, valido del paziente. Il consenso informato è il fondamento etico giuridico e deontologico dell’atto medico, mentre in passato tale fondamento era rappresentato dalla finalità di cura che era insita nell’atto
Di consenso all’atto medico, nel significato di assenso, se ne è sempre parlato fin dall’antichità. Il vero cambiamento rivoluzionario si realizza quando compare l’aggettivo “informato” accanto al sostantivo “consenso”1, che introduce di fatto come novità sostanziale la necessità, ovvero l’obbligo del medico di informare il paziente su tutti gli aspetti relativi alla sua salute e ai possibili trattamenti affinché questi possa aderire alla decisione clinica in maniera consapevole. Non solo questo, però, l’aggettivo “informato” porta, infatti, con sé il concetto fondamentale della comprensibilità e della comprensione dell’informazione da parte di chi la riceve: questa  non può ritenersi effettuata attraverso la fredda, burocratica elencazione di tutti i possibili aspetti tecnico-scientifici inerenti al problema di salute dell’utente. L’informazione, fermo restando il requisito della sua completezza, realizza il consenso informato solo nel momento in cui viene resa accessibile all’interessato ed è effettivamente compresa dallo stesso. Questo ha comportato la trasformazione e l’ampliamento del significato originario e lessicale della parola “consenso” che, con l’aggiunta di “informato”, da assenso/autorizzazione al trattamento medico diventa diritto del paziente ad autodeterminarsi. Ciò ha comportato una rivoluzione dell’orizzonte culturale medico che ha cambiato il rapporto medico paziente che dal tradizionale modello ippocratico paternalista, in cui era il medico a decidere in “scienza e coscienza” il bene del paziente, è passato a quello basato sull’autonomia, dove è quest’ultimo a scegliere sulla base delle opzioni di cure prospettate dal medico.
La prima affermazione sulla necessità del consenso informato affinché l’atto medico sia lecito si ritrova nel Codice di Norimberga (1947), emanato all’indomani dell’omonimo processo ai crimini nazisti. In tale documento viene stabilito che nessuna sperimentazione è lecita sull’essere umano se questi non acconsente liberamente dopo essere stato informato dei possibili rischi e benefici. La diffusione di questo principio dall’ambito della sperimentazione a quello della pratica clinica è avvenuta in tempi diversi nei vari paesi e sotto la spinta di vari fattori. Un fattore comune è stato sicuramente l’affermarsi della bioetica come disciplina autonoma che prima sul piano della riflessione teorica e poi attraverso i comitati etici ha diffuso la cultura dei diritti umani e la lotta al paternalismo medico. Un altro contributo importante è stato dato dalle pronunce giurisprudenziali che hanno stabilito la responsabilità medica penale e civile dei medici nei casi in cui l’atto medico chirurgico sia stato compiuto senza consenso informato. E’ opinione di molti che in Italia la svolta, che ha di fatto introdotto il consenso informato nella pratica clinica, sia stata la sentenza di condanna per omicidio preterintenzionale di un chirurgo (Caso Massimo Corte di Assise di Firenze 1992), che aveva operato senza consenso valido della paziente.
Il fondamento giuridico del consenso informato si ritrova: negli artt. 32 e 13 della Costituzione che stabiliscono il diritto alla salute e l’inviolabilità della libertà personale, nell’ambito di quest’ultima, la sentenza, n. 471 del 1990 della Corte Costituzionale,  ha riconosciuto la libertà di ognuno di disporre del proprio corpo; nelle due leggi del 1978 (n. 833 che ha istituito il sistema sanitario nazionale e n. 180 in materia di assistenza psichiatrica) che hanno affermato che le cure sono di norma volontarie e nessuno può essere obbligato ad un trattamento se ciò non è previsto da una legge. Sebbene non esista una normativa che regolamenti in modo univoco il consenso informato,  vi sono una serie di leggi emanate negli anni ’90, in specifici settori, da cui si ricavano gli ambiti e le modalità di  applicazione ( tra queste si ricordano il D.M. 1° settembre 1995, in tema di trasfusioni di sangue e somministrazione di emoderivati, la L. 675/’96 sulla privacy).
Sebbene siano ormai tanti i segnali indicativi che la strada intrapresa va verso il modello basato sull’autonomia, ancora siamo molto lontano dalla sua piena realizzazione anzi, ci troviamo a vivere in una realtà, a macchia di leopardo o meglio “ schizofrenica”, in cui affermazioni nette e intransigenti circa l’imperativo categorico rappresentato dal consenso informato si scontrano con asserzioni anche giurisprudenziali che vanno nel senso contrario2. Mentre nel mondo anglosassone l’autonomia è sovrana e, in assenza di danni a terzi, trova il confine esclusivamente nella competence della persona che esercita il diritto di autodeterminazione, nel nostro paese la questione è confusa e rimane aperta a soluzioni, spesso, contrastanti.  In Italia, infatti, continua ad essere di attualità il dibattito circa i limiti posti, alla libertà dell’individuo di disporre del proprio corpo e della propria vita, dall’art. 5 del codice civile. Limiti che a molti appaiono in contrasto con il principio personalista che informa la Costituzione che consiste nella tendenziale prevalenza dei diritti di libertà dell’individuo sull’interesse statale ad una generica preservazione della vita e della integrità della salute.

 DICHIARAZIONI/ DIRETTIVE ANTICIPATE DI TRATTAMENTO

Direttive o dichiarazioni anticipate di trattamento,  testamento biologico, liwing will sono  documenti attraverso i quali si realizza il diritto delle  persone di autodeterminazione in ordine alle cure che vorrebbero ricevere o rifiutare anche quando si dovessero venire a trovare nell’impossibilità di esprimere la propria volontà. Questi documenti vengono compilati, secondo i criteri predefiniti dalle legislazioni dei vari paesi che li riconoscono, e servono per dare indicazioni al medico circa la volontà del paziente divenuto incosciente.
Il problema di chi decide sulla salute e sui trattamenti da effettuare sul paziente non cosciente è ampiamente dibattuto, da molti anni, in molti paesi, anche europei, ma soprattutto è negli Stati Uniti che la questione è stata affrontata fin dagli anni Settanta.
Infatti, la prima legge in materia, risale al 1976 ed è relativa al Self Determination Act dello stato della California, in seguito, quasi tutti gli altri stati hanno emanato una legislazione dettagliata, tesa a valorizzare la manifestazione di volontà del paziente che si trova in stato di incoscienza. I modelli principali, più diffusi in America, sono il Living will e le Proxy directives. Con il Living will una persona capace di intendere e volere, prima dell’eventuale verificarsi di particolari circostanze cliniche, formula un atto scritto dando delle indicazioni sulla natura e sulla tipologia del trattamento terapeutico o assistenziale da compiere, qualora si venisse a trovare nell’incapacità di esprimere autonomamente la propria volontà.
Le Proxy directives rappresentano un’alternativa al Living will, per coloro che vogliono essere certi del fatto che altre persone, consapevoli dei loro desideri, compiranno le scelte più opportune nel caso in cui non siano più in grado di farlo direttamente.
In Italia, nonostante le molte resistenze, vi è un cambiamento del dibattito dottrinario nei riguardi delle direttive anticipate. Nel ’92,  la dottrina prevalente ritenne inattuabile la proposta avanzata dalla Consulta di Bioetica di una “Carta di autodeterminazione”3 in quanto l’espressione di volontà in ordine alle cure non poteva mancare del requisito, ritenuto fondamentale sul piano della validità giuridica, dell’attualità nei confronti dei trattamenti verso cui era rivolta. Le stesse difficoltà, nel ’99, fecero arenare la  proposta di legge n.5673, intitolata “Disposizioni in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari”, elaborata dalla stessa Consulta di Bioetica, al fine di ottenere il riconoscimento legislativo della Biocard. 
Attualmente  l’orientamento è cambiato ed è diventata prevalente l’idea che  i testamenti biologici debbano essere recepiti dall’ordinamento in quanto la tutela del diritto di autodeterminazione del paziente deve continuare, anche quando questi ha perso la capacità di esprimere la propria volontà. Rimane invece aperta la questione se e quanto debbano essere vincolanti per il medico. Questa questione non è di poco conto perché rappresenta la difficoltà della cultura europea ad affrancarsi dal modello paternalista del rapporto medico paziente.
Per il momento si propende a dare alle direttive un peso non vincolante per il medico. E’ in tal senso la scelta compiuta da parte della Convenzione europea sui diritti dell’uomo e la biomedicina4 quando, all’articolo 9, afferma che “I desideri precedentemente espressi in relazione ad un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà, saranno tenuti in considerazione.”
Questa disposizione è stata inserita  nell’attuale Codice di Deontologia Medica del 19985. Il Codice, di fronte al problema del limite posto alla libertà professionale del medico dalle direttive anticipate,  introduce la doppia negazione “non può non tener conto”. Con questo stratagemma il Codice assume una posizione di compromesso fra il modello paternalista della medicina tradizionale, secondo il quale è il medico a decidere per il “bene” del paziente in “scienza e coscienza” e, il modello dell’autonomia, in cui è il malato a scegliere sulla base delle proposte che il medico gli prospetta.
La “non vincolatività” delle dichiarazioni anticipate per il medico è stata ribadita nel parere  del Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) sulle direttive anticipate di vita, richiesto dal Ministro della Salute del Governo Italiano, nell’ottobre 2002.  La domanda del Ministro ha preso le mosse da due vicende giudiziarie che hanno coagulato l’emozione generale e l’attenzione dei media: il caso di Eluana Englaro e quello della sig.ra Moroni; in entrambe le vicende è stato chiesto  il rispetto della volontà delle pazienti, espressa in epoca antecedente alla perdita della competence delle stesse, di sospensione delle cure di sostegno vitale. 
Il Comitato, dopo 1 anno di lavoro  e dopo una difficile mediazione tra le posizioni divergenti, su diversi punti, della componente laica e cattolica del Comitato, ha formulato il documento 6, che è stato reso pubblico il 5 febbraio 2004.
Questo documento è importante per il fatto che per la prima volta vengono gettate le basi affinché i liwing will ricevano un riconoscimento normativo e per il rafforzamento che da esso trae il diritto  all’autodeterminazione. Inoltre un secondo aspetto che si desume da tale documento, di altrettanta importanza, è l’affermazione implicita, ma netta, che la decisione clinica può prescindere dall’apporto dialogico dell’interessato solo nell’evenienza dello stato di necessità, quando il medico pone in essere trattamenti urgenti, non differibili, sulla base del consenso presunto del paziente. Da ciò discende che la decisione clinica non può essere in contrasto con eventuali volontà pregresse perché, altrimenti, verrebbe a mancare il consenso presunto.
Il titolo, “Dichiarazioni anticipate di trattamento”, è stato adottato per richiamare la conformità di questa forma di autodeterminazione con l’articolo 9 della Convenzione di Oviedo. E’ stato scelto di usare il termine “dichiarazioni”, al posto di “direttive”, per attenuare la prescrittività insita nel significato della parola direttiva. Su questo punto vi è stato un intenso dibattito in seno al CNB ed alla fine si è optato per una mediazione tra chi, nel Comitato, ritiene prevalere la libertà decisionale del medico e chi, invece, il diritto all’autodeterminazione del paziente. Il carattere non vincolante delle dichiarazioni anticipate si traduce nella pratica nel fatto che il medico potrà, da un lato, rifiutare di eseguire le volontà del paziente, ma, dall’altro, dovrà spiegarne formalmente le ragioni.
Il parere del CNB è percorso da una duplice tensione: la prima relativa al carattere non vincolante delle dichiarazioni, la seconda al non fare concessioni  all’eutanasia e a non aprire varchi ad essa. Viene precisato infatti che nelle dichiarazioni anticipate non può essere formulata  alcuna richiesta, da parte del sottoscrittore, che possa configurare eutanasia.
Sempre per questo motivo è stata lasciata aperta la questione, molto controversa all’interno del CNB, circa la possibilità di dare indicazioni finalizzate a richiedere il non inizio o la sospensione di trattamenti terapeutici di sostegno vitale, nel caso che “non realizzino nella fattispecie indiscutibili ipotesi di accanimento”, e la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale. Alcuni hanno rilevato che vi è una contraddizione interna nelle soluzioni proposte dal documento, che supporta in modo timido e debole il ruolo centrale dell’autonomia. Comunque, sebbene con limiti ed incertezze, il diritto all’autodeterminazione ha avuto un’ulteriore e decisivo rafforzamento.


  1. Ciò avviene in Italia nell’edizione del Codice di Deontologia medica del 1989: capo IV, artt. 39-42.
  2. Nella Sentenza della Cassazione- Sezione IV penale (Up)- del 9 marzo/ 12 luglio 2001  viene affermato infatti l’opposto di ciò che era stato asserito nella sentenza Massimo.
  3. Il 23 marzo 1992, il Presidente della Consulta di Bioetica, presentò ufficialmente a Milano, in una conferenza stampa, la Carta di Autodeterminazione che era stata elaborata da un’apposita commissione di studio e  poi approvata dall’Assemblea.  I documenti della consulta di Bioetica ( Milano), in “Bioetica” 1993, p.145.
  4. Oviedo,  4 aprile 1997.  In Italia, la legge di autorizzazione alla ratifica è del 28 marzo 2001, n.145.
  5. L’articolo 34 al secondo comma, stabilisce che “Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tener conto, di quanto precedentemente manifestato dallo stesso.”
  6. Il documento “Dichiarazioni anticipate di trattamento” porta la data della votazione finale, 18 dicembre 2004.