La farmacia del diavolo.
Considerazioni bioetiche sul “doping” nel ciclismo.

I resoconti degli inviati al Tour de France del luglio scorso somigliavano più a cronache giudiziarie e a bollettini medici che a servizi sportivi. Le espressioni più utilizzate erano “corsa dei farmaci”, “Tour dopato”, “doping ematico”. A dire il vero non era la prima volta che i cronisti della Grand Boucle le utilizzavano. Nel 1998 una intera formazione ciclistica, la svizzera Festina, la cui “ammiraglia” era stata fermata alla frontiera carica di prodotti dopanti, si vede esclusa dal Tour sotto l’accusa di “doping di squadra” e diversi suoi rappresentanti vengono arrestati. Nel 2006 l’italiano Ivan Basso e il tedesco Jan Ullrich sono espulsi dalla competizione per essere stati coinvolti nella ”Operaciòn Puerto” (dal nome dato a una indagine spagnola dei primi mesi dello stesso anno sul doping nel ciclismo), mentre l’americano Floyd Landis, vincitore di fatto di quella stessa edizione, non si vede assegnare il titolo per essere risultato positivo al testosterone.
Nell’edizione appena conclusa, d’altra parte, i titoli a sensazione sul doping hanno accompagnato la manifestazione quasi dal primo all’ultimo giorno. Alcuni campioni del ciclismo internazionale, tra i quali il kazako Vinokourov e il danese Rasmussen,  sono costretti (il danese a tre giorni dalla conclusione del Tour e con la “maglia gialla” saldamente sulle sue spalle) al ritiro dalla “corsa più grande del mondo” con l’accusa di aver anch’essi assunto sostanze dopanti. Il primo atleta era stato sottoposto a una analisi che aveva rivelato la presenza di due ‘popolazioni’ di globuli rossi nel sangue, segnale di una trasfusione omologa con cui il corridore, si presume, doveva aver effettuato un astuto ‘rabbocco’ ematico. Il secondo era accusato di essersi reso irreperibile nei 45 giorni precedenti le grandi corse a tappe per non venire sottoposto ai controlli e ai prelievi ‘a sorpresa’ previsti dai regolamenti. Anche se dunque nel suo caso la ‘positività’ al doping non era comprovata, il comprar viagra en España di sospetto che ormai travolge il mondo del ciclismo aveva spinto l’opinione pubblica prima e gli organizzatori poi a ritenere che ogni corridore doveva considerarsi colpevole fino a quando non si fosse dimostrato innocente.
Il mese precedente all’avvio del Tour, d’altra parte, altre due notizie avevano tenuto banco in Francia nelle cronache (sempre più) nere di questo sport. La prima riguardava Franck Vandenbroucke – conosciuto come “il nuovo Merckx”. La stampa riferiva che oltre a ricorrere spesso alla “farmacia proibita” del ciclismo (dalla sua abitazione privata erano stati prelevati tra il 1999 e il 2002 sostanze dopanti di ogni tipo), l’atleta belga assumeva quotidianamente cocaina; caduto poi (come anni prima era successo al campione italiano Marco Pantani) in una  grave depressione, aveva tentato (senza riuscirci) il suicidio. La seconda notizia riguardava la storica decisione presa nel frattempo dagli organizzatori del Tour di lasciare vuota la casella  dell’albo d’oro dei vincitori della “Grande Boucle” relativa all’edizione 1996 dopo che l’ex-corridore danese Biarne Riis, “maglia gialla” alla conclusione della corsa a tappe di quell’anno, aveva confessato di avere ottenuto il successo grazie all’uso di eritropoietina e di altre sostanze dopanti.
“Storicamente, innegabilmente, lo sport che ha più flirtato e trincato col doping è il ciclismo” – ha osservato un noto giornalista sportivo italiano. “Dai bottiglioni di vino rosso dei pionieri alla stricnina, dalla coca all’eroina, dalle amfetamine al cortisone, dagli antiallergici all’epo, dall’autoemotrasfusione alla trasfusione omologa. La differenza è che una volta il dopatore era un praticone, un massaggiatore con un minimo di nozioni chimiche. Adesso è un medico, magari con più lauree, cui viene chiesto di migliorare la prestazione di un uomo, o di un cavallo, o di un cane da corsa, fa poca differenza. La farmacia del diavolo…è sempre in  movimento, sempre aperta” (1).
La “farmacia del diavolo”, oltre che aperta, è fornita e variegata. Dai suoi scaffali si possono estrarre – per citare solo i principali prodotti – le efedrine, le amfetamine, gli anabolizzanti, l’insulina, il testosterone, l’ormone della crescita, i beta-bloccanti, gli anti-asmatici, i corticosteroidi, l’eritropoietina, i narcotici, le emoglobine sintetiche, i perfluorocarburi, i diuretici e – da ultimo – il Thg, la molecola appositamente studiata per ingannare le analisi. Utilizzate oggi perlopiù in ambito terapeutico per alleviare certe patologie e curare disfunzioni, oppure in ambito non terapeutico per procurarsi piacere ed evasione  (è il caso dei narcotici, come morfina e codeina), queste sostanze possono anche essere impiegate come strumenti per potenziare e migliorare certe abilità e prestazioni fino a raggiungere nuovi standard di “eccellenza”.
In premessa occorre ricordare che la ricerca della “prestazione superiore” o “eccellenza” contrassegna tutta la storia dello sport agonistico nella forma del culto del “record” e dell’ingiunzione a “battere i record” (2). “Più in alto, più veloce, più forte” recita non a caso il motto olimpico coniato dal barone De Coubertin, suffragato dalle espressioni di stupore di un mondo che acclama gli atleti quando una “barriera” (spaziale o temporale) che si presumeva invalicabile viene abbattuta, per poi ritirarsi nell’attesa di tornare ad acclamare quando qualcuno verrà a infrangere anche il nuovo limite. Non c’è quindi da meravigliarsi, da una parte, se proprio lo sport competitivo (nel nostro caso il ciclismo professionistico) sia l’area che negli ultimi decenni ha conosciuto il maggior ricorso al doping (3). L’assunzione di certe sostanze da parte degli atleti ha lo scopo di accrescerne la forza, potenziarne i riflessi, aumentarne la massa muscolare e prolungarne la resistenza alla fatica, allo stress, alla fame e al dolore. Si creano così per ogni atleta, almeno in teoria, le condizioni per fare, come si suole dire, “più che bene” o “meglio che bene”, cioè per accrescere performances di per sé “normali” (per esempio a livello amatoriale), o rendere oltremodo eccezionali prestazioni che (a livello professionistico) si trovano già  ai limiti delle abilità umane (4).

Alla gran parte degli osservatori, d’altra parte, ciò appare illecito. E’ proprio a proposito degli usi di questi farmaci a scopi di potenziamento sportivo che si ricorre al termine “doping”- una parola dalle risonanze emotive negative, evocatrice del Male in quanto tale. La parola contiene in sé una condanna senza appello della pratica in questione; pronunciarla costituisce il modo per troncare la discussione e invocare bandi globali. La tesi diffusa è che l’uso delle droghe nel ciclismo costituirebbe un mezzo improprio per raggiungere il fine socialmente approvato di “prestazioni eccellenti” (5). Il ricorso a certe sostanze, si sostiene, corrompe la “dignità” dell’attività sportiva e la “personalità” di chi le usa. Il corpo del ciclista – prosegue la tesi – è e dovrebbe restare simile a un luogo sacro e inviolabile. Al proposito capita che la stampa richiami alla mente episodi e figure legati ai tempi (cosiddetti) “eroici” del ciclismo, quando ad esempio Ottavio Bottecchia, che correva con i panni da muratore, strappava con i denti dai cerchi i tubolari forati, rinunciava ad alimentarsi con il cibo consegnato in corsa agli atleti preferendo portare qualcosa da mangiare alla famiglia, e nonostante ciò trionfava al Tour del 1924. Il ciclismo, in questa ottica da epopea eroica, è una sorta di romanzo d’appendice o di moderna mitologia che gronda lacrime, fatica e sangue. I suoi protagonisti sono degli atleti-asceti i cui corpi possono (devono?) anche subire il martirio legato alle condizioni in cui si svolge la competizione, ma mai essere aiutati. Ciò che conta, infatti, è che gli atleti riescano da soli, a costo di “spolmonarsi”, a superare le prove e le asperità di cime dai nomi leggendari come Mont Ventoux, Tourmalet, Aubisque, Izoard, Galibier. Dal corpo è consentito pretendere prestazioni sportive superiori (PS), ma sempre e soltanto entro i limiti biologici assegnati da Dio o dalla natura e facendo unicamente leva sulla “forza di volontà”. Pedalare – “con le proprie (non-potenziate!) gambe” – o schiantare: tertium non datur. La grandezza dell’atleta, come ebbe a scrivere Roland Barthes collocando non a caso la Grande Boucle tra i “Miti d’oggi” (1957), non stava solo o tanto nella vittoria di un uomo sugli altri, ma soprattutto dell’uomo su se stesso: “La tappa è ispida, vischiosa, infiammata, irta ecc., tutti aggettivi  che appartengono a un ordine esistenziale della qualificazione e mirano a indicare che il corridore è alle prese non con questa o altra difficoltà naturale, ma con un vero tema di esistenza, un tema sostanziale in cui, con un solo movimento, egli impegna la propria percezione e il proprio giudizio”. Ebbene, la “farmacia del diavolo” deturpa la bella epopea del ciclismo eroico e svuota di senso “le prove di esistenza”. Essa è dunque moralmente esecrabile: “…lo scatto – scriveva ancora Barthes – [è un] vero e proprio impulso elettrico che prende di soprassalto certi corridori cari agli dèi e fa loro compiere prodezze sovrumane [..] C’è una terribile parodia dello scatto, la “bomba”; drogare il corridore è tanto criminale, tanto sacrilego quanto voler imitare Dio; è rubare a Dio il privilegio della scintilla” (6).

Nelle pagine che seguono useremo il termine doping in una accezione moralmente neutra, come sinonimo di dispositivi (chimici e farmacologici) per  il potenziamento di funzioni o abilità psico-fisiche in ambito sportivo. Il nostro semplice proposito è di mettere alla prova dell’analisi razionale l’idea che il doping sia espressione di un desiderio di profanazione di qualcosa di  sacro e intoccabile, o che nasconda una oscura “brama di perfezione” che degrada la ‘natura’ del ciclismo (7). Gli interrogativi che al proposito qui vengono suggeriti non hanno la pretesa di essere gli unici, né le risposte che si offrono ambiscono ad essere risolutive. Hanno il solo scopo di mostrare che anche i principali argomenti sinora addotti a sostegno della illiceità del doping nel ciclismo a nostro parere non sono convincenti né, tanto meno, definitivi. Il nostro scopo non è di difendere la liceità del ricorso ai mezzi di potenziamento farmacologico nello sport, ma di avanzare dubbi in merito al fondamento su cui attualmente poggiano i bandi assoluti e sollecitare un supplemento d’indagine.

1. Natura contro artificio. Crediamo non ci siano molte parole da spendere riguardo a chi mette in discussione la liceità del potenziamento bio-chimico ricorrendo alla contrapposizione tra un tipo di PS ‘naturale’, e dunque moralmente buona, guadagnata attraverso lo “sforzo autentico” e ripetuto, e un tipo di PS ‘artificiale’, e dunque cattiva, ottenuta “senza sforzo” e con ausilii chimici (8). In effetti, a dispetto delle visioni idealizzate del ciclismo che pretendono che l’eroe sportivo debba trattare il proprio corpo in modo “naturale”, non si è dovuto attendere l’impiego del testosterone, delle amfetamine o dell’ormone della crescita (a cui presumibilmente andranno ad aggiungersi nel prossimo futuro le applicazioni della terapia genica) per trasformare il corpo dell’atleta da realtà indisponibile a prodotto (almeno in grande parte) della scelta e della pianificazione volontaria umana. Gli atleti non hanno mai mancato di fare ricorso ai più svariati mezzi e metodi artificiali per facilitare il potenziamento e l’allargamento delle possibilità dell’organismo funzionali al successo (9). Basti pensare ai regimi di dieta, all’uso di materiali e di equipaggiamenti sempre più ricchi e sofisticati, ai lunghi allenamenti e all’affinarsi delle tecniche di allenamento, al ruolo dei trainers, alla meditazione o alla scelta delle ‘guide spirituali’ (di Gino Bartali si soleva dire che la sua droga era la fede…). Tutti questi mezzi, in un modo o nell’altro, assottigliano il peso delle componenti naturali (date) del corpo e di altrettanto accrescono quello delle componenti artificialmente indotte. Il fatto che certi strumenti o pratiche non siano percepiti come “artificiali” dipende solo dal loro progressivo ‘incorporarsi’ nello stile di comportamento abituale degli atleti, dal loro divenire cioè tanto familiari e utili da configurarsi come naturali.
Ciò significa che la differenza fra un mezzo di potenziamento e un altro non ha nulla a che fare con la dicotomia natura-artificio, ma, semmai, col grado di accoglienza o gradimento sociale di un artificio rispetto a un altro. In altre parole il rifiuto dell’artificialità del doping fa emergere il ruolo della tradizione e delle convenzioni sociali (tabù e pregiudizi compresi) nel far essere qualcosa naturale o innaturale, non diversamente forse da quanto é accaduto, per esempio, per l’introduzione dell’anestesia nella pratica chirurgica: inizialmente percepita come empia o innaturale, è stata poi diffusamente utilizzata fino a diventare essa stessa un mezzo naturale  irrinunciabile.
Riguardo allo sforzo, che sarebbe presente nelle PS “naturali” e assente invece in quelle che sfruttano i potenziamenti chimici, c’è da dire che anche molte PS naturalmente acquisite sono (quasi) senza sforzo. Sono quelle – e ce ne sono – che dipendono dalle generose dotazioni originarie di cui alcuni atleti sono stati gratificati dalla lotteria genetica (naturale). Si tratta di quegli atleti “cari agli déi”, di cui parlava Barthes, e ai quali rimane così facile compiere “prodezze sovrumane” da far pensare davvero che “esista un ordine sovrannaturale in cui l’uomo riesce in quanto ci sia un dio ad aiutarlo” (10). Da questo punto di vista, dunque, non è chiaro perché i vantaggi procurati con gli interventi artificiali (compresi gli interventi chimici) dovrebbero essere oggetto di biasimo a differenza dei vantaggi – ambiti e ammirati – elargiti dalla natura o dagli dèi. Gli aiuti chimici hanno forse qualche caratteristica che li renda intrinsecamente meno apprezzabili del favore degli dèi?
D’altra parte, non c’è ragione di credere che la componente dello “sforzo” volontario venga meno con gli strumenti del bio-potenziamento chimico. Al contrario, proprio il potenziamento potrebbe essere visto come l’ultima espressione di un’etica dello sforzo e della volontà di fronte alle mutate circostanze in cui si svolge il ciclismo. Il numero delle competizioni (e dei chilometri) che gli atleti sono chiamati ad affrontare cresce di anno in anno, le prove si fanno sempre più dure e complicate, i carichi di lavoro più gravosi (7-8 ore in sella ogni giorno per 300 giorni all’anno), gli sforzi richiesti più intensi, le attese del pubblico (e le pretese dello “spettacolo”) più insistenti ed elevate. In questa situazione la strumentazione medica e l’‘addizione’ chimica non sono anestetici per una presunta, deresponsabilizzante “fuga dal reale” e dalle fatiche connesse agli impegni della competizione. Sono, in prima istanza, strumenti per eguagliare, per così dire, la realtà e le situazioni concrete della corsa, mezzi per rispondere agli altissimi standard di prestazione richiesti.
Insistere unilateralmente sulla necessità di mettere al bando come mezzo “innaturale” il doping senza fare i conti con le nuove e altrettanto innaturali circostanze e pressioni a cui devono far fronte gli atleti è un atteggiamento da struzzi. E’ rifiutarsi di vedere che i problemi del ciclismo stanno anche nei ritmi forsennati impressi a questo sport e in un ‘calendario’ denso di appuntamenti impegnativi e ineludibili. A causa di tale rifiuto l’ausilio chimico, da concreta risorsa (se regolamentato) per l’atleta che voglia affrontare le nuove e esigenti richieste del ciclismo, rischia di diventare (se demonizzato) il “capro espiatorio” di una battaglia tutta ideologica in cui a confrontarsi sono figure fittizie come la Natura  e l’Artificio (11).

2. Modificazioni dirette e indirette. A questo punto chi obietta all’uso di steroidi e di altre sostanze dopanti nel ciclismo osserva che anche concedendo quanto sopra vi sarebbe però una differenza rilevante, dal punto di vista morale, tra mezzi per così dire meccanici e mezzi chimici del potenziamento delle prestazioni. Mentre i mezzi meccanici (dalle bici in alluminio a quelle in carbonio, dai caschi e dalle tute “ergonomici” alle ruote “lenticolari”, ecc.) modificano direttamente il contesto e solo indirettamente e in modo reversibile l’atleta, le sostanze dopanti lo modificano direttamente e in modo irreversibile, “alterando” le sue dotazioni originarie e andando a incidere per sempre sul suo corpo e sull’identità personale (12).
Al proposito occorre osservare che la cosiddetta “medicalizzazione” del ciclismo (e dello sport in genere) ha in effetti esteso di molto le possibilità della ‘costruzione’ chimica dei corpi e accresciuto significativamente le chances di pianificazione delle prestazioni atletiche. In particolare – per il tema che ci riguarda – la produzione e diffusione dei farmaci ha permesso di intervenire sempre più in profondità sull’organismo, coinvolgendo la preparazione fisica nel suo complesso (allenamenti compresi) e non solo le singole performances: “La chiamano sbrigativamente la ‘cura’ – ha scritto un cronista dal Tour – perché non si tratta più come una volta di un semplice prodotto, della pasticchetta più o meno segreta, più o meno sconosciuta tirata fuori di tasca al momento opportuno il giorno della gara. Bensì di un vero e proprio ‘trattamento’ che comincia in inverno nella stagione della preparazione per continuare ininterrottamente lungo i mesi delle competizioni. E culminare il giorno o i giorni della gara. Attraverso ‘cicli’ di ‘carico’ e ‘scarico’ che ricalcano quelli dell’allenamento vero e proprio in bici. L’anabolizzante l’inverno quando è il momento di aumentare con i carichi di lavoro la forza e la resistenza, ma anche l’estate quando è necessario accelerare il recupero del catabolismo derivante dalla fatica quotidiana, ovvero l’usura quotidiana che subiscono le fibre muscolari per via degli sforzi intensi e ripetuti” (13).
C’è da notare d’altra parte, e in primo luogo, che i cosiddetti cambiamenti indiretti non sono meno rilevanti di quelli diretti. Se è vero che la tecnologia non cambia solo il modo di fare le cose, ma anche le cose che facciamo, si impone una conclusione: il ciclismo come si configura a seguito della evoluzione tecnica dei materiali, delle attrezzature, delle strutture organizzative, dei sistemi di sponsorizzazione e dello spettacolo mediatico non è più lo stesso dei tempi cosiddetti “eroici”. E’ difficile immaginare un Bottecchia che continui a strappare coi denti i tubolari quando il successo nella competizione dipende spesso da lievi scarti cronometrici. Nello stesso modo è altrettanto plausibile supporre che insieme alle attività nelle quali il ciclista è impegnato vengano modificati anche il sistema delle sue aspettative, gli apparati cognitivi e dunque, almeno indirettamente, il suo “carattere”. Ne consegue che non è affatto scontato che le virtù, i tratti e i comportamenti che si richiedono oggi agli atleti siano gli stessi di ottanta anni fa. Eseguire una “crono” o affrontare una salita mentre gli strumenti misurano i battiti del cuore, il respiro e la potenza e dall’auricolare si ascoltano le istruzioni del direttore sportivo che trasmette i tempi dei rivali o suggerisce le traiettorie da tenere implica competenze e abilità sconosciute a chi semplicemente si affidava alle proprie gambe e al proprio ‘fiato’.
In secondo luogo, è dubbio che i cambiamenti nelle attrezzature e nelle tecniche convenzionali di assistenza producano solo cambiamenti indiretti dell’agente. Ciò è evidente ovviamente per interventi che riguardano l’ottimizzazione della nutrizione e delle metodiche di allenamento, per i quali è difficile dire dove finisca l’interferenza indiretta e cominci quella diretta. Ma la cosa non è meno chiara per altri tipi di mezzi. Un casco ergonomico o un cambio speciale ovviamente non lasciano segni evidenti sul corpo, ma questo non significa che le nostre abitudini o la nostra “identità” restino inalterate (14). Ne sono prova espressioni come “non potrei fare più a meno della mia tuta”, o “senza questo tipo di telaio non mi sento più lo stesso” (non diversamente da quanto si usa dire, e non solo per retorica, a proposito dei cellulari o della metropolitana). Auricolari, caschi profilati, bici ‘speciali’, sebbene fisicamente ‘esterni’ agli agenti, entrano a far parte funzionalmente degli agenti. Ciò significa che la linea divisoria tra persone ed equipaggiamenti è continuamente erosa, qualunque siano i mezzi impiegati, e non è plausibile pensare alle “persone” come entità disincarnate separate dalle protesi tecnologiche. I “mezzi” tendono a incorporarsi in maniera inestricabile nelle forme di vita degli agenti e non è dato cogliere, neppure nello sport, un netto confine tra miglioramento degli uni e potenziamento degli altri.
Riguardo poi alla distinzione tra cambiamenti reversibili e irreversibili, c’è da notare che questa sembra essere una differenza solo contingente, non assoluta o categoriale. Lo sviluppo delle tecnologie consente di ‘rimuovere’ quello che è stato installato e dunque di rendere reversibile ogni intervento: anche le modifiche più profonde, insomma, sono suscettibili di essere rimodificate. Ma soprattutto, dal punto di vista morale, c’è da notare che non sembra avere rilievo se un cambiamento prodotto sui corpi degli agenti sia diretto o indiretto, reversibile o irreversibile. Se così fosse, infatti, dovremmo bandire le cure mediche, la chirurgia e le psicoterapie che inducono cambiamenti (incluse amputazioni, sostituzioni di organi e di ‘tratti di personalità’) anche profondi (diretti e indiretti, reversibili e irreversibili) in chi vi è sottoposto. Ciò che conta moralmente è capire se un cambiamento è buono o cattivo per chi lo esperisce, ovvero se “alterare” è un mero modificare o un attivo danneggiare. Per stabilire ciò è necessario fare riferimento non alla procedura utilizzata, ma agli scopi e motivi per i quali una certa modificazione viene perseguita e ai risultati che ne conseguono. Medicina, chirurgia e psicoterapie vengono giudicate (perlopiù) positivamente in quanto, cercando di debellare malattie o lenire sofferenze, aiutano chi viene modificato a stare meglio o meno male di come starebbe se non venisse modificato. Il doping nel ciclismo – ove ci si liberi del peso della risonanza emotiva negativa della parola – è, in prima istanza, una delle modalità biotecnologiche di modificazione del corpo (e della mente) con la quale alcuni individui cercano di estendere il controllo sui processi chimico-fisici del proprio organismo e su qualità, durata e limiti delle sue prestazioni (15). Con ciò essi dimostrano di rifiutare in partenza la normatività di una immagine corporea (quella data) e tendono a rimodellarla sulla base di principi e valori personali. Non aspirano a rimanere come sono, legati a vincoli biologici e funzionali dati, né temono eventuali cambiamenti delle dotazioni originarie: per loro avere una “identità personale” ha poco a che fare con le particolari caratteristiche psico-fisiche che attualmente siamo soliti usare per definire noi stessi. La questione in gioco diventa allora se la loro aspirazione a “prestazioni superiori” comporti o meno danni di un genere moralmente rilevante per qualcuno, mentre non sembrano in discussione l’aspirazione in sé all’eccellenza, gli strumenti usati per realizzarla e i punti in cui vanno a depositarsi  i cambiamenti. Nel caso in cui l’uso del doping non nuoccia ad alcuno, l’addizione chimica si configura come un modo di esercitare la libertà di disporre del proprio corpo secondo i propri criteri di identità personale e di autorealizzazione. 

3. Eccellenza umana e eccellenza non umana. Una terza obiezione, di chiara ispirazione aristotelica, si fonda sull’assunto che nella competizione sportiva non conta soltanto l’eccellenza dei risultati, ma anche o soprattutto chi li consegue e come (16).
Chi. Riguardo al chi, l’obiezione assume che siamo esseri biologici, con capacità finite e un corpo con dotazioni originarie altrettanto limitate, fragili e imperfette che fanno sì che si abbia l’identità che abbiamo. Come “io incorporati” (“noi non abbiamo un corpo, siamo un corpo!”) possiamo anche cercare cambiamenti alla nostra condizione, ma entro i limiti assegnati dalle dotazioni native. Le “prestazioni superiori” moralmente lodevoli sono quelle conseguite da agenti che si muovono entro gli orizzonti di possibilità definiti dal loro essere “io incarnati”. Ogni tentativo di oltrepassare questi limiti ha un prezzo in termini di violazione o perdita della “dignità umana”, intesa come la “fioritura integrale” delle facoltà connesse al tipo di esseri che siamo.
Come. Riguardo al come conseguire prestazioni superiori la modalità lecita consiste nel coltivare sino all’eccellenza un tratto o una abilità in modo “propriamente umano”. Con quest’ultima espressione si deve intendere l’atto o l’insieme degli atti consapevolmente scelti grazie ai quali tra lo sforzo impiegato e i risultati ottenuti emergono connessioni identificabili e riconoscibili, di cui cioè l’atleta è pienamente cosciente. Ciò significa che non possono ritenersi “propriamente umane” quelle forme di eccellenza in cui la connessione tra le attività di potenziamento e i traguardi conseguiti resti sconosciuta o scarsamente intelligibile.
Da queste premesse l’obiezione dell’eccellenza trae le seguenti considerazioni. L’atleta che si allena seguendo metodiche convenzionali sceglie di attingere unicamente alle risorse della sua “dotazione originaria”. Così facendo “onora” la corporeità data, ha una conoscenza accurata di quel che sta accadendo al suo organismo e vive attivamente l’esperienza di essere “in funzione” o “al lavoro nel mondo”. Al contrario, chi usa steroidi, EPO, ormone della crescita o esegue trasfusioni utilizza doni nuovi ed estranei alle dotazioni umane per conseguire risultati eccedenti il tipo di esseri che siamo. Ha una visione mitizzata del suo corpo (percepito come una sorta di laboratorio sperimentale aperto 24 ore su 24) che lo sospinge a desiderare il continuo superamento della sua finitezza. L’esito di questa iperstimolazione è la riduzione dell’agente a macchina o a mero ricettacolo  di cambiamenti chimici che non interpellano la sua coscienza. Si usa anche dire che l’atleta che fa uso di mezzi convenzionali sviluppa in prima persona la capacità da sviluppare esercitandola; l’atleta chimicamente potenziato (ACP), al contrario, isola un set di caratteristiche a spese di altre aree della vita e delega al mezzo il compito di perfezionarle astenendosi dal prendere parte attiva nel processo. Mentre nel primo caso esperienza, coscienza e comprensione sono tra loro allineate e garantiscono l’integrità umana complessiva dell’atleta, nel secondo le due dimensioni sono disgiunte: l’identità prende “forma a livello molecolare” e l’ACP si aliena dalla realtà e dal suo concreto fare (17). L’obiezione in esame conclude che l’eccellenza conseguita dall’ACP, a differenza di quella dell’atleta convenzionale, non è il tipo di eccellenza che si richiede agli umani, quella per noi ‘naturale’ o a noi ‘destinata’. E’ piuttosto quella di una macchina, di un robot chimico o di un dio, un tipo di eccellenza “iperumana” che non potremmo ammirare e  desiderare per esseri fatti come noi.
Non è difficile vedere che l’obiezione dell’eccellenza presenta diversi punti deboli.
Coscienza e attività. In primo luogo trascura di considerare che già molte attività di routine della nostra vita quotidiana, dal mangiare al dormire, trasformano i nostri corpi senza la nostra partecipazione cosciente e attiva: essi cioè non sono (si pensi alla digestione) esperenzialmente intelligibili. La stessa cosa caratterizza peraltro anche molte delle attività autodirette e coscientemente vissute, compresi gli allenamenti convenzionali o le risposte in gara alla condotta dei rivali: in esse rimaniamo infatti del tutto ignari della dimensione “molecolare” in cui si svolgono i processi chimici coinvolti. In generale c’è da ricordare che tutta la vita mentale ed emotiva umana si svolge in gran parte al di sotto della soglia della coscienza. Ciò significa – ammesso e non concesso che questo sia moralmente importante – che la differenz