Sergio Bartolommei
Sul diritto di essere lasciati andare (e il dovere di riuscirci).
Lo stato vegetativo permanente e l’etica di fine vita.
1. Lo stato vegetativo permanente. “Il suo aspetto è quello di una giovane donna ben nutrita e ben accudita i cui arti giacciono rigidi e immobili; solo il viso presenta alcuni movimenti automatici e riflessi, ma nessuna espressione umanamente significativa. In nessun modo si riesce a entrare in contatto con lei [..] Di lei rimane un corpo privo della capacità di provare qualsiasi esperienza, con un sondino inserito nel naso e un catetere nella vescica, totalmente dipendente dalle cure che le vengono fornite dal personale di assistenza” .
Quella che precede è la parziale descrizione di una paziente – Eluana Englaro – in stato vegetativo permanente (SVP) da 16 anni. Lo SVP è la condizione insorta a causa di un trauma cranico o di un’emorragia caratterizzata da totale assenza di risposte agli stimoli sensoriali, da alternanza degli stati di sonno e di veglia e, soprattutto, dalla perdita irreversibile della consapevolezza di sé, del mondo esterno, degli altri. Dal punto di vista anatomo-fisiologico quel che contraddistingue il paziente in SVP è la distruzione della corteccia cerebrale (sede degli emisferi), o la sua definitiva disconnessione dai centri nervosi sottostanti. In un caso o nell’altro sono definitivamente annullate, insieme alle condizioni della vita cognitiva, emotiva e di relazione, anche le percezioni del piacere e del dolore. Permangono attive le funzioni del tronco encefalico che presiedono al respiro, alla circolazione, alla regolazione della temperatura corporea, al sonno e alla veglia (da cui lo stato di “vigilanza” che distingue questa condizione dal coma profondo). L’apertura e la chiusura degli occhi, alcuni movimenti delle labbra, della lingua e della mandibola, smorfie di sorriso o di pianto e vocalizzazioni che il profano può scambiare per tentativi di una comunicazione volontaria e consapevole, o espressione di dolore e sofferenza, sono in realtà solo movimenti automatici e riflessi privi di intenzionalità, significato, scopi .
La diagnosi di SVP è questione empirica e non pone difficoltà insormontabili. Trattandosi di una diagnosi clinica ha – come tutte le valutazioni di questo tipo – un carattere probabilistico e non può pretendere alla certezza assoluta . La necessità di appurare l’avvenuta disgiunzione tra consapevolezza e “vigilanza” (che nel senso comune sembrano logicamente connesse) fa sembrare arduo o impossibile il compito e accresce i timori e le preoccupazioni, nei familiari dei pazienti, riguardo alla affidabilità del giudizio . Tuttavia le evidenze strumentali di danni massivi agli emisferi e una osservazione accurata e prolungata nel tempo che consenta di escludere segni di una eventuale ripresa di contatti del paziente col mondo esterno (e quindi di differenziare questa condizione da altre simili ma non assimilabili, come la condizione di “minima responsività” o la sindrome “locked-in” ) rendono via via sempre più inoppugnabile, oltre alla diagnosi, anche la prognosi. In particolare è norma consolidata parlare di “irreversibilità” di tale condizione quando essa perduri oltre i dodici mesi nel caso sia stata determinata da un trauma, e oltre i tre se è insorta per cause non traumatiche, quali un evento anossico. Superate queste soglie temporali, una ‘ripresa’ può anche aversi, ma è rarissima, e comunque sempre associata a gravi e gravissime disabilità funzionali e cognitive.
Tutti poi concordano, sul piano della prognosi, che gli individui in SVP, se ben accuditi, possono sopravvivere in queste condizioni per mesi e anni anche al di fuori dei reparti di terapia intensiva . Come diremo meglio in seguito lo SVP, in effetti, lungi dall’essere uno stadio “naturale” di fine vita, è una ‘nuova’ modalità del morire creata dagli sviluppi delle tecniche biomediche . Grazie alla possibilità di vicariare con strumenti artificiali organi e funzioni che hanno perso la loro spontanea vitalità, il corpo degli individui in SVP che, lasciato a sé, si spegnerebbe rapidamente per il sopraggiungere di complicanze respiratorie, metaboliche o infettive, viene prima rianimato e poi sostenuto. In questa forma può continuare a svolgere compiti meccanici e biologici ben oltre la cessazione delle funzioni coscienti. Si tratta di interventi in cui, a pensarci bene (e ciò sarà di grande importanza per le considerazioni che seguiranno), non è tanto la vita a venire prolungata, quanto il processo del morire a essere interrotto e protratto senza che tuttavia ci si possa attendere il benché minimo beneficio per la salute dei pazienti .
2. Scopo e struttura dell’articolo: le alternative sul piano morale. I problemi del trattamento degli individui in SVP, perlopiù assenti in ambito di diagnosi e di prognosi, si pongono invece a livello morale, oggetto del presente articolo . Una volta stabilito che senza l’insorgere di incurabili patologie questi pazienti possono essere tenuti in vita per un tempo indeterminato, ciò costituisce una ragione sufficiente per farlo? Ha senso prolungare la vita umana indipendentemente dalle circostanze in cui si svolge? Evitare la morte costituisce un bene anche quando la vita è ridotta alla mera funzionalità meccanica e biologica dell’organismo? Scopo del presente articolo è presentare criticamente le principali risposte date a queste domande. Distingueremo due piani di discussione. Il primo, di tipo ontologico, è quello per cui si cerca di dissolvere i dilemmi morali che possano nascere dalle scelte che si aprono agli individui in SVP, o a chi li rappresenta, negando che queste siano, di fatto, situazioni di scelta. Il secondo piano è di tipo propriamente morale e al contrario del primo mira a farsi carico del carattere di scelta dei modi del morire in SVP e dei dilemmi ad essi collegati. All’interno di questo secondo piano mostreremo che è possibile distinguere tra un approccio ispirato a una nozione di responsabilità come affidamento a un ordine superiore e uno ispirato alla responsabilità come affidamento a se stessi. Per il primo modello il dovere principale è quello di aderire a ordini morali sovraordinati (dettati da Dio o dalla natura) che raffigurano lo SVP come una delle modalità (seppur “silente”, perché contrassegnata da malattia gravemente invalidante) dello svolgersi e dipanarsi della vita umana lungo un ordine di senso prefissato alle azioni. Per il secondo modello, al contrario, nelle questioni di vita e di morte non esistono ordini morali separati dalla concreta volontà degli individui cui capiti di dovere scegliere il da farsi, né esistono orientamenti di senso prefissati cui attingere le regole dell’agire. Cercheremo di evidenziare che l’alternativa, all’interno di questo secondo modello, è tra chi opti per essere sostenuto in vita indefinitamente (e definiremo per convenzione vitalistica questa posizione) e chi invece decida che gli siano sospese le cure e i sostegni per essere “lasciato andare”, secondo l’espressione usata da Giovanni Paolo II nella fase terminale della sua malattia (e definiremo, sempre per convenzione, qualitativistica questa alternativa). Infine sottolineeremo come l’unico vincolo richiesto dal modello della responsabilità come affidamento a se stessi sia di attuare il precetto secondo cui “dovere far qualcosa” significa avere ragioni per farlo, e ciò anche a proposito di circostanze estreme della vita (come lo SVP) in cui, essendosi irreversibilmente dileguata la coscienza, non sembrerebbero esserci motivi, ragioni e condizioni per riflettere. Scopo del vincolo è rifuggire da pigrizie intellettuali, paure e razionalizzazioni che tendono a confinare le persone lontano da un esercizio quanto più possibile consapevole della libertà morale. Alla luce di questa regola metodica concluderemo per la moralità della posizione qualitativistica rispetto a quella vitalistica.
3. La via ontologica: definire la morte. Sul piano ontologico tende a impegnarsi in particolare chi pensa che alle domande sopra formulate debbano essere date risposte negative, e che tale negazione possa essere dedotta, in maniera non problematica, da una soluzione tecnica e oggettiva alla questione di cosa sia la morte delle persone e di quando si possa dire che una persona è morta. Chi si richiama a questa strategia è del parere che la decisione di sospendere ogni tipo di trattamento e terapia ai pazienti in SVP possa fondarsi sul solido terreno dei dati di fatto medico-scientifici. A questo scopo si cerca di far valere l’idea che la definizione di morte come morte del cervello, di tutto il cervello – originariamente avanzata (1968) dalla Commissione ad hoc di Harvard a superamento della precedente caratterizzazione della morte come cessazione dell’attività cardio-respiratoria e poi recepita nelle legislazioni di quasi tutti i Paesi del mondo – dovrebbe essere ‘aggiornata’ alla luce di nuove considerazioni cliniche. Il ragionamento è semplice. Se si assume che una persona è morta quando sono cessate le sue funzioni cerebrali, che cosa impedisce di stabilire che già la distruzione irreversibile delle parti superiori del cervello (gli emisferi), anche in presenza della funzionalità del tronco, soddisfi le condizioni per la definizione di morte? In fondo – prosegue tale tesi – le attività del tronco possono essere in parte surrogate e probabilmente lo saranno sempre di più nel prossimo futuro. Attendere la morte cerebrale per dichiarare morte le persone rinvierebbe sine die un accertamento che può essere fatto ben prima. Se ciò che conta per definire morta una persona è la cessazione dell’attività cerebrale, perché non identificare la morte cerebrale con la perdita irreversibile della capacità di coscienza e di interazione sociale – la cosiddetta morte (neo)corticale – piuttosto che con la perdita delle capacità di funzionamento dell’organismo come un tutto? Il sostenitore di questa posizione tende a supporre che per “attività cerebrale” debba intendersi soprattutto la capacità di un paziente di mantenere intatto il senso della sua identità personale, ovvero di continuare a pensarsi come la stessa persona nel tempo. Nel paziente in SVP, essendo venute meno le basi della continuità psicologica, non è più garantita l’identità personale, e il paziente può essere dichiarato morto a tutti gli effetti. Mentre l’attività del tronco (tendenzialmente surrogabile) continua ad assicurare il funzionamento dell’organismo come un tutto, l’attività cerebrale – e il contenuto più distintivo che essa ontologicamente ‘secerne’, l’identità personale – è andata per sempre distrutta con la distruzione degli emisferi (non sostituibili). In questa ottica, interrompere le terapie o astenersi dal somministrare acqua e nutrienti a un paziente in SVP non significherebbe ucciderlo, ma consentire il compimento ‘naturale’ (ontologicamente dato) del processo del morire irreversibilmente iniziato con la distruzione degli emisferi.
La via ontologica presenta alcuni indubbi vantaggi dei quali, per ragioni di spazio, ci limitiamo a ricordarne solo tre. In primo luogo essa mostra che il paziente in SVP non è un “malato” al pari degli altri, neppure di certi grandi disabili. La perdita che ha subito – quella della coscienza – non è paragonabile ad altri handicap . Se al signor Rossi viene amputato un avambraccio, egli non cessa di ragionare, parlare, avere esperienze: sarà privo di un avambraccio, ma sarà pur sempre il signor Rossi. Se Rossi, al contrario, viene privato definitivamente della coscienza, è come se gli fosse amputata la testa: Rossi non è una persona che ha subito una “compressione delle capacità superiori” pur restando la stessa ; Rossi cessa del tutto di essere una persona e non sembra implausibile dire che è morto, proprio come si fa col decapitato a cui pure continui a funzionare ancora per un po’ di tempo (come in effetti è stato verificato) l’organo cardiaco .
In secondo luogo la via ontologica sembra consentire di fondare i doveri morali del personale sanitario e degli altri soggetti coinvolti al capezzale del paziente in SVP su dati oggettivi e inoppugnabili: i resoconti empirici e scientifici di una diagnosi neurologica. Da questo punto di vista la via ontologica sembra permettere di risolvere “more geometrico” tutta una serie di problematiche morali relative al trattamento del paziente in SVP e dei suoi organi, dal momento che la presunzione di certezza legata alla diagnosi di “morte corticale” spinge a concepire la sospensione dei trattamenti non già come il prodotto di una scelta (sempre discutibile) tra corsi d’azione alternativi, bensì come il portato obbligato di un corso di cose oggettivo, univoco e ineluttabile.
Infine la via ontologica sembra risolvere il problema di come comportarsi con quei soggetti caduti in SVP prima di potersi esprimere riguardo a come essere trattati nel caso di perdita di coscienza, o con quei soggetti che mai, nel corso della loro esistenza, si sono dimostrati capaci e competenti a esprimersi in merito. Anche in questo caso la problematicità sempre connessa alle scelte morali viene come azzerata semplicemente dichiarando morta la persona sulla scorta di protocolli osservativi che si presumono oggettivi.
Nonostante questi apparenti vantaggi, la via ontologica va tuttavia incontro a una serie di obiezioni che ne minano la plausibilità. Intanto occorre osservare che la morte corticale – presentata come abbiamo visto come la ‘vera’ modalità della morte cerebrale – non può evitare gli ostacoli concettuali in cui si imbatte quest’ultima. Ben lungi dal segnare la cessazione completa di tutte le funzioni biologiche, già la morte cerebrale propriamente detta (come morte di tutte le parti del cervello) non è incompatibile con la produzione, da parte dell’organismo, di certe attività (come il persistere di una reattività dell’ipotalamo e dell’ipofisi che da esso dipende, o della reattività vasomotoria nel corso degli interventi di espianto) che mettono in discussione, proprio dal punto di vista ontologico, la presunta conclusività del criterio . Inoltre non bisogna dimenticare che alcuni individui in morte cerebrale sono stati mantenuti in vita in queste condizioni per lunghi periodi con una circolazione persistente dimostrando così, come già accennato, che le funzioni che nel morto cerebrale vengono a mancare possono anch’esse (com’era accaduto per la morte cardio-vascolare) essere almeno in parte vicariate anche se per un tempo non indefinito.
Il sostenitore della via ontologica potrebbe pur sempre ribattere a queste osservazioni che non è tanto alla cessazione definitiva delle attività fisiologiche dell’intero organismo che egli fa riferimento quando propone il concetto di morte (neo)corticale come interpretazione autentica della morte cerebrale. Il riferimento che egli intende far valere è piuttosto alla perdita completa e definitiva delle funzioni della coscienza che, non essendo almeno per ora (a differenza di parte del tronco) sostituibile, pregiudica definitivamente il recupero dell’identità personale – il contenuto “secreto” dall’attività cerebrale. A questo tipo di replica si può tuttavia controbattere che il concetto di identità personale come continuità psicologica – e lo stesso concetto di morte corticale come indicatore della perdita dell’ identità personale – non designano affatto realtà ontologiche da cogliere ostensivamente con strumenti medici. Tali concetti sono piuttosto nozioni morali, poiché entrambe rinviano al primato della coscienza e delle attività riflessive e autoriflessive come misura di cosa più conta o importa nella vita degli esseri umani . Lungi dall’essere una “secrezione” dell’attività cerebrale, l’identità personale come continuità psicologica è un costrutto morale che vede nella presenza della coscienza ciò che vi è di più significativo nella vita umana e nella sua irreversibile perdita l’equivalente della morte. In altre parole non è che gli individui in SVP sono morti perché sono corticalmente morti; piuttosto gli individui in morte corticale sono morti in quanto persone e non c’è più nulla, dal punto di vista morale, che valga la pena salvare delle loro vestigia biologiche. Essendo andato irreversibilmente perso nello SVP ciò che più conta per essere persone, tende a dissolversi il valore che una volta veniva attribuito all’involucro biologico che rivestiva la persona. Il sostenitore della via ontologica, che indirettamente coglie il carattere dirimente (su cui torneremo) della vita cosciente come criterio ragionevole per definire degna di essere vissuta una vita propriamente umana (che in assenza di tale carattere risulta ridotta a vita meramente biologica), commette due fallacie. Una fiscalista, di tipo epistemologico, in quanto scambia il contenuto della coscienza (ad esempio il senso dell’identità personale) con le capacità neurologiche della corteccia come sede dei processi coscienti, ed una naturalistica, più propriamente morale, con la quale riconduce una valutazione morale (la morte della coscienza come morte della persona) ad un giudizio di fatto (“la morte non è nient’altro che morte cerebrale, e questa nient’altro che morte corticale”). Per questa via egli giunge alle stesse conclusioni cui giunge, come diremo più avanti, chi sostiene che un’esistenza in condizioni vegetative permanenti, a rigor di termini, non può essere nemmeno definita tale, mancando delle caratteristiche biografiche e autobiografiche che fanno di essa un’ “esistenza”, ovvero una vita dotata di senso; e tuttavia vi giunge rimuovendo passaggi e dilemmi di ordine morale. Egli infatti ritiene che l’assenza della corteccia comporti di per sé, come atto dovuto, l’interruzione dei trattamenti per gli individui in SVP, essendo essi, di fatto, morti, per cui ogni trattamento sarebbe da considerarsi futile o assurdo come lo è il tentativo di rianimare un cadavere. In questo modo però il fautore della via ontologica occulta le dimensioni propriamente morali della questione dietro la parvenza di soluzioni tecniche e scientifiche. I disaccordi e i dilemmi in merito al trattamento degli individui in SVP vengono come aggirati in base alla pretesa che la risposta alle controversie possa essere data in modo conclusivo tramite la dichiarazione che la persona è fattualmente morta.
Non sembra sia, questa, un strada percorribile. Una delle ragioni – se non la principale – è che gli individui vengono come espropriati della loro decisione in merito a come voler essere trattati (o non trattati) nel caso si venissero a trovare in una situazione di SVP. La via ontologica – peraltro non diversamente dalla prima alternativa di tipo morale che analizzeremo subito – nega che le decisioni in fatto di essere lasciati vivere o morire siano decisioni legate alle esperienze, alle rappresentazioni di sé e alle scelte degli individui direttamente coinvolti in queste tragiche situazioni (come potrebbero essere ricostruite attraverso direttive anticipate, le parole di un “amministratore di sostegno” nominato ad hoc o l’esame, da parte di comitati etici o di corti di giustizia, degli stili di vita, delle convinzioni morali e religiose che hanno caratterizzato la vita dei pazienti). L’idea piuttosto è che esistano un corpo di conoscenze, dei macchinari e un personale esperto in grado di appurare con relativa certezza (oggi) se non con inesorabile precisione (domani) quando esattamente una persona è morta accertando la cessazione definitiva dell’attività neo-corticale. Nella decisione di sospendere, o continuare, alimentazione e idratazione artificiale al paziente in SVP non sarebbe in gioco nessuna responsabilità morale, nessun dovere da parte di alcuno di “rendere ragione” della scelta da compiere. La decisione viene consegnata ad autorità esterne (scientifiche, tecniche e intellettuali) con il discutibile esito che sono esse ad arrogarsi il potere di interrompere o perpetuare vite altrui in base a certezze sovraordinate e distinte rispetto alle concrete volontà (pregresse o ipotetiche) delle persone che di quelle decisioni sono i destinatari.
4. La via (propriamente) morale. Preso atto dei limiti autoritari (e non solo paternalistici) della via ontologica occorre volgersi a quella che per comodità abbiamo definito la “via propriamente morale” al trattamento dei pazienti in SVP. A differenza della prima prospettiva che cerca di rispondere a domande del tipo “Cosa è la morte?” e “Quando una persona è morta?”, la prospettiva qui in gioco si interroga su questioni come “Fino a che punto è lecito mantenere in vita le persone?”, oppure “Quando è moralmente giustificato trattare una persona come morta”?, ma anche, come vedremo, “Che tipo di morte abbiamo il dovere di chiedere che sia evitata?” . In altre parole si prescinde da questioni di fatto riguardo allo statuto ontologico delle persone in SVP (se vive o morte) e ci si chiede invece quale sia il valore della vita di tali pazienti e per quali ragioni sarebbe giusto o sbagliato prolungarne l’esistenza. Le posizioni in gioco sono grosso modo due e, come accennato, si ispirano l’una all’idea metafisica di un ordine antropologico che sancisce la “dignità intrinseca” delle persone in qualunque fase e condizione della loro esistenza sino a dichiarare indisponibile la vita dei pazienti in SVP; l’altra, all’idea empirica che il valore da attribuire alla vita e alla morte delle persone, nonché i criteri di definizione di identità personale e di dignità della persona, sono e devono restare oggetto di scelta e disponibilità da parte degli individui (nella loro singolarità di individui) quando e nella misura in cui certe situazioni li riguardino direttamente.
5. Essenzialismo antropologico e assoluti morali. La prima soluzione risponde alle domande sopra formulate in questo modo: è lecito e doveroso mantenere in vita le persone in SVP (o è sbagliato trattarle come morte) finché la vita non si separi ‘spontaneamente’ da loro, ovvero – come si suole ripetere – fino al sopraggiungere della “morte naturale”. Il presupposto di questa posizione è di tipo ontologico, anche se l’ontologia di riferimento si differenzia da quella sottesa alla soluzione esaminata al punto precedente in quanto prescinde da assunti scientifico-fattuali e si àncora piuttosto a principi di ordine metafisico. Tale presupposto ha il suo nucleo in una particolare dottrina della natura umana, presentata dai suoi fautori come specchio di profonde “verità sull’uomo”, ovvero della autentica “visione antropologica”. E’ la dottrina secondo cui le “persone” (identificate con gli esseri umani in qualunque circostanza e stadio della vita essi si trovino) fanno parte di un ordine cosmico e di una gerarchia di esseri voluti da una entità trascendente. In questo ordine e in questa gerarchia le persone ricoprono, per ragioni creaturali, il posto più elevato, anche se per essere persona è sufficiente esistere come membro della specie umana. I modi di vivere e di morire delle persone dovrebbero rispecchiare questo ordine trascendente anche a costo di gravi sacrifici. Diritti e doveri delle persone, infatti, sono antecedenti alle loro volontà empiriche e iscritti nel tipo di “dignità” associata alla loro speciale natura o essenza. Tale “dignità”, di valore assoluto, è connaturata al tipo di esseri che gli esseri umani sono e perciò non può accrescersi o ridursi con l’esercizio o il mancato esercizio di certe capacità o funzioni tipiche dell’uomo adulto (coscienza, comunicazione simbolica, conoscenza, competenze relazionali). Per la vita umana non è cioè possibile istituire gradi di valore differenziato, qualunque siano le circostanze o fasi in cui si concretizza. La stessa società e le istituzioni sociali non dovrebbero mai prescindere dalla “verità antropologica” secondo cui la vita umana è un “dono” finalizzato al raggiungimento di un ordine morale previamente dato il cui primo precetto è proprio quello di lasciare a Dio o alla natura di decidere dei tempi e dei modi dell’uscita delle persone dall’esistenza .
Chi muove da questi presupposti si pronuncia contro l’interruzione dei mezzi di sostentamento vitale (nutrizione e idratazione artificiali, NIA) nei pazienti in SVP. Al proposito vale la pena ricordare una recente netta presa di posizione della Congregazione per la dottrina della fede (settembre 2007), sollecitata ad esprimersi dalla Conferenza dei Vescovi cattolici americani a seguito degli echi suscitati (e non ancora spentisi) negli Stati Uniti dal caso di Terry Schiavo. L’alto Ufficio del Magistero cattolico si è espresso a favore della obbligatorietà della somministrazione di “acqua e cibo” al paziente in SVP, giudicati mezzi “ordinari” o “proporzionati” alla “conservazione della vita”. Nello stesso tempo, alla domanda se tali mezzi possano però essere sospesi nel caso i medici giudichino con “certezza morale” che un paziente in SVP non potrà mai più recuperare la coscienza, la Congregazione ha risposto con un perentorio “no”, “nella misura in cui e fino a quando [la somministrazione di cibo e acqua] dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente”, vale a dire fino a che gli alimenti non possano più essere assimilati dall’organismo. Il divieto è sostenuto dall’idea che questo tipo di paziente è pur sempre una “persona con la sua dignità umana fondamentale” alla quale sono dovute le cure di cui sopra essendo la sua patologia parte integrante della sua biografia. Autorizzare la sospensione dei trattamenti per i pazienti in SVP significherebbe voler disporre di un valore (la dignità della vita umana) che si fonda sull’ ”essenza dell’uomo” ed è intangibile .
La concezione qui a grandi linee riassunta della indisponibilità della vita dei pazienti in SVP si presta a vari tipi di obiezione.
5.1 Una Dignità senza le vite. In primo luogo essa fa valere una concezione della “dignità umana” (in cui è compresa l’indisponibilità della vita) come essenza aliena, Bene di interesse distinto e separato dagli interessi degli individui concretamente viventi e la cui conservazione si imporrebbe anche a chi, tra gli esseri umani, si trovi in SVP. Appartiene a questo modo di concepire la dignità l’idea che esista una teoria che stabilisce in astratto quale sia il modo intrinsecamente buono e cattivo di vivere e, di riflesso, quello intrinsecamente buono o cattivo di morire. Come nella concezione ontologica esaminata al punto precedente, anche in questo caso – pur se con motivazioni diverse – gli individui vengono come espropriati degli orientamenti della loro volontà e il “diritto alla vita” si converte, per chi langua in SVP, nell’obbligo incondizionato di continuare a vivere, anche se non è possibile per lui ricevere più dalla vita il benché minimo beneficio. L’esigenza di ‘salvare il principio’ della “dignità umana” come bene indipendente fa aggio sulla qualità delle vite e sulla percezione che di essa hanno uomini e donne concretamente esistenti i cui organi e le cui funzioni finiscono, in nome di esigenti ideologie, come per essere requisiti e posti sotto sequestro. Il fautore della “dignità della vita umana” come valore indipendente pretende infatti di decidere non solo della propria, ma anche della morte degli altri sulla base di una idea astratta e assoluta di cosa sia, per le persone, “morte dignitosa”. Egli finisce così per screditare come difettose dal punto di vista del senso morale le persone che avessero optato per soluzioni alternative al prolungamento della vita negando ad esse il rispetto dovuto alle loro scelte . Sostenere – come talvolta si sente dire – che gli individui in SVP, non potendo esprimersi, non subirebbero alc